Somalia – Come un burocrate americano è diventato Presidente

Era un rifugiato che aveva abbracciato la democrazia di stile americano. Ora sta cercando di portarla a casa.

di Taylor Gee

Libera traduzione da: Politico Magazine, February 19, 2017

La mattina dell’8 febbraio un funzionario statale di Buffalo, New York- Somalo di nascita, ma Americano per scelta – entrava in un hangar ben protetto della capitale natale del suo Paese segnata dalle battaglie, dove stava per svolgersi un’importante votazione. Quando quella notte ne uscì, era Presidente. La sua vittoria a sorpresa, celebrata con armi da fuoco e macellazione di cammelli a Mogadiscio e “dammi il cinque” presso la sede di Buffalo del Dipartimento dei Trasporti di New York, dove era ancora tecnicamente impiegato come responsabile del controllo delle pari opportunità, è stata ancor più sorprendente perché è giunta nel momento stesso in cui una Corte federale degli Stati Uniti stava decidendo il destino di un divieto di ingresso che aveva come obiettivo profughi esattamente come lui.

La storia di come Moḥamed ‘Abdullāhī Moḥamed [nelle due foto sopra e sotto, N.d.T.] è diventato leader di un Paese che è sinonimo di anarchia e terrorismo è al tempo stesso un classico racconto americano di immigrati e un altro sul conflitto secolare tra principi democratici fondamentali e forze della corruzione politica. Comincia nel 1988, quando Moḥamed, allora Primo Segretario dell’Ambasciata somala a Washington, D.C., decise che era troppo pericoloso tornare a casa e chiese asilo politico. All’epoca gli Stati Uniti erano propensi ad accettare queste richieste.

Nei successivi 25 anni conseguì le lauree in Storia e Scienze Politiche, si impegnò in campagne locali e, come pubblico ufficiale, fece da portavoce per altri rifugiati, assorbendo lentamente gli insegnamenti della società civile e le basi del livello direttivo medio americano, che avrebbe voluto un giorno riportare in Somalia. In qualche modo era diventato un prodotto da esportare. Non soia o chip informatici, ma valori democratici.

“Ha sempre avuto interesse a tornare e cercare di portare la pace”, dice Joel Giambra, un ex amministratore della Contea di Erie, New York, per cui Moḥamed fece campagna elettorale e con cui poi lavorò a partire dal 1999. “È stata sempre la sua ambizione”.

C’è chi dice che che Moḥamed, 54 anni, che si è candidato alla Presidenza con un programma anti-corruzione, abbia comprato il cammino verso la vittoria. Le stesse persone dicono che è il costo ironico, ma inevitabile, del fare affari in un Paese ancora disperatamente instabile. Ma, risultati alterati o meno, alcuni dicono che Moḥamed, con i suoi decenni di esperienza nella governance americana, potrebbe essere il partner giusto, di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per combattere il terrorismo internazionale proveniente dal Corno d’Africa. “Quello che credo Moḥamed offra è, si spera, la comprensione tecnocratica di come funziona la democrazia degli Stati Uniti”, dice Muḥammad Fraser-Raḥīm, un funzionario di programmi presso l’Istituto americano per la Pace. “Penso che sia un insieme di competenze che i due ex Presidenti non necessariamente avevano”.

In realtà, il rifugiato trasformatosi in Presidente potrebbe proprio essere uno dei più potenti argomenti contro il divieto d’ingresso come quello introdotto dal Presidente Donald Trump, che avrebbe impedito l’ingresso di Moḥamed negli Stati Uniti – questo, in definitiva, diminuisce l’influenza americana all’estero.

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Moḥamed non era poi così desideroso di lasciare la Somalia. Era nato in un clan ben collegato e suo padre, che aveva trascorso gran parte della sua vita sotto il dominio coloniale italiano, era un impiegato statale. Aveva soprannominato il figlio “Farmaajo”, che è una versione locale della parola italiana formaggio, uno dei cibi preferiti dal ragazzo. Dopo il diploma di scuola secondaria, Moḥamed aveva ottenuto un lavoro presso il Ministero degli Esteri e nel 1985 fu inviato all’Ambasciata di Somalia a Washington. Ma nel 1988 Moḥamed criticò il governo autoritario della Somalia e, temendo di non poter tornare a casa in sicurezza, chiese asilo politico negli Stati Uniti.

Moḥamed portò la moglie a Buffalo, dove una comunità di rifugiati somali aveva cominciato a stabilirsi alcuni anni prima. Si trasferirono in alloggi pubblici, mentre lui studiava per ottenere la laurea in Storia presso la New York State University di Buffalo. Un anno dopo la sua laurea i coinquilini elessero Moḥamed “responsabile della residenza”, che lo collocò automaticamente presso l’Autorità municipale degli Alloggi di Buffalo. Si guadagnò la fama di organizzatore della comunità, che gli immigrati e gli elettori musulmani di Buffalo orientarono verso la leadership. Nel 1999 Moḥamed mobilitò gli elettori delle minoranze per sostenere Giambra, un repubblicano ex democratico in corsa per amministratore della Contea, e Moḥamed si registrò come repubblicano. Quando Giambra vinse, Moḥamed iniziò a lavorare nel suo ufficio in qualità di coordinatore degli affari delle minoranze della Contea. Lo sfruttò per ottenere nel 2002 un lavoro simile presso il Dipartimento dei Trasporti di New York. Per otto anni Moḥamed applicò i requisiti di non discriminazione e azione affermativa tra gli appaltatori statali – politiche che sono totalmente estranee alla Somalia, dove i lavori governativi dipendono dall’appartenenza ai clan e i terreni pubblici sono praticamente regalati ad amici e alleati di chi sta al potere.

Chi lavorava con Moḥamed in quegli anni lo descrive come un cortese e umile uomo di casa. Ma la sua ambizione era pure evidente e non era solo per migliorare la percentuale di assunzioni delle minoranze da parte degli appaltatori del Dipartimento Trasporti. Ottenne un master in Scienze Politiche alla New York State University di Buffalo. La sua tesi era intitolata: “Interesse strategico degli Stati Uniti in Somalia”.

“Tutti noi abbiamo avuto la sensazione che avesse solo una passione e un cuore per il suo Paese”, dice Janine Shepherd, che lavorava nel box accanto a Moḥamed al Dipartimento dei Trasporti di New York. “È stato sempre molto infastidito dalla corruzione presente lì”.

“Avevamo lunghe conversazioni sui Paesi in via di sviluppo che erano autoritari e su quali fossero i passi per ottenere la democrazia”, dice il professor Donald Grinde, relatore della sua tesi. Discutevano dei diversi modelli di governance democratica, dei signori della guerra e dell’estremismo religioso. “Capisce che la democrazia è un esercizio imperfetto”, dice Grinde, “tanto in Somalia quanto negli Stati Uniti. Ma credo che pensi sia molto meglio rispetto all’alternativa”.

Nella sua tesi Moḥamed identificava “gli estremisti islamici” come uno dei principali ostacoli alla stabilità in Somalia. Ash-Shabaab e altre organizzazioni terroristiche, sosteneva, erano in grado di prosperare grazie alla politica sconsiderata degli Stati Uniti nella regione. “Il popolo somalo è stato vittima del colonialismo, della dittatura e di signori della guerra criminali”, scriveva Moḥamed. “Ora sono al crocevia di due ideologie estremiste: l’ideologia cristiana di George W. Bush, da un lato, e il radicalismo islamico, dall’altra, che vogliono intraprendere una guerra santa l’uno contro l’altro non solo in Iraq e in Afghanistan, ma anche in Somalia. Purtroppo, coloro che alla fine soffrono di più costituiscono la maggioranza: loro non approvano queste ideologie radicali”.

Nel 2010, nemmeno un anno dopo aver conseguito il master, Moḥamed ebbe la possibilità di parlare di questi problemi con qualcuno che in realtà avrebbe potuto fare qualcosa per loro. L’allora Presidente della Somalia Sheykh Sharīf Aḥmed [nella foto sotto, N.d.T.] andò a New York per partecipare all’Assemblea Generale dell’ONU e Moḥamed, tramite amici di amici, organizzò un incontro. Secondo Moḥamed, volle dare al Presidente il suo consiglio – da manager a manager – su quello che la Somalia dovrebbe fare per ridurre la corruzione. L’incontro andò bene; così bene, infatti, che pochi giorni dopo Moḥamed ricevette una telefonata dallo staff del Presidente. Era sulla short list del Presidente per l’incarico di Primo Ministro.

Dopo aver discusso con la moglie, Mohamed chiese al suo superiore tre settimane di vacanza, spiegando che sarebbe andato a Mogadiscio per un colloquio e che c’era la possibilità che non sarebbe tornato. Un mese più tardi, in Somalia Moḥamed si insediava nel suo nuovo ruolo.

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L’improvvisa ascesa di Moḥamed a Primo Ministro non era così strana come sembra.

I politici della diaspora costituiscono un terzo del Parlamento federale della Somalia. È una delle stranezze di un Paese che non ha il tipo di squadre-vivaio governative che le democrazie più sviluppate hanno. Un Somalo-Americano che ha trascorso gran parte della sua vita in California tornò nel 2011 per diventare Ministro della Difesa del Paese e quest’anno, di 24 candidati alla Presidenza della Somalia, 9 avevano passaporto americano. Fra tutte, la più sorprendente storia di ritorno a casa è probabilmente del 1996, quando gli anziani delle tribù [in realtà, l’Alleanza Nazionale Somala, N.d.T.] elessero alla Presidenza Ḥusayn Moḥammed Faraḥ, un caporale di 33 anni della Riserva dei Marines, che un anno prima guadagnava 9 dollari l’ora come impiegato nella periferia di Los Angeles. (In quel caso, probabilmente, contribuì il fatto che il padre del Marine era Moḥammed Faraḥ Aidid [appellativo per “il Vittorioso”, N.d.T.], un Presidente auto-dichiarato, morto in uno scontro a fuoco un anno prima; Aidid era anche il generale che aveva combattuto contro il Corpo dei Marines nella battaglia immortalata nel libro e nel film Black Hawk Down).

Infatti, tra i sette Paesi compresi nel tentativo di divieto di Trump, la maggior parte vanta influenti funzionari che hanno trascorso un periodo negli Stati Uniti, di solito per studiare. Ex primi ministri di Yemen e Libia hanno frequentato università americane. Uno di loro, Shukrī Ghānim, è stato un riformatore che ha lavorato, con un certo successo, per spingere Mu‘ammar Gheddafi verso la riconciliazione con l’Occidente. Javad Zarif, Ministro degli Esteri iraniano che ha curato i negoziati per l’accordo nucleare iraniano, ha frequentato una scuola privata a San Francisco e ha ricevuto B.A. e M.A. dalla San Francisco State University e il Ph.D. dall’Università di Denver. John Garang, un influente leader dei ribelli del Sudan che è stato un protagonista di un accordo di pace del 2005 nel Paese, aveva frequentato il Grinnell College in una città dell’Iowa di 9.000 abitanti circondato da campi di grano.

Leader stranieri che hanno soggiornato negli Stati Uniti possono frequentemente, se non sempre, dare una mano al governo degli Stati Uniti nelle attività diplomatiche. Giambra sostiene che sarà sicuramente il caso di Moḥamed: “Credo che gradirebbe l’occasione di collaborare con gli Stati Uniti”, dice. “Mi ha sempre detto che il modo più efficace per sradicare il terrorismo negli Stati Uniti è quello di fermarlo in Somalia”.

Quando Moḥamed iniziò il suo mandato come Primo Ministro a settembre 2010, ha infatti lavorato per respingere ash-Shabaab, il più grande gruppo terrorista della Somalia, e ha aiutato l’Esercito a stabilire lo stato di diritto nel 60 per cento di Mogadiscio. Ma ciò che ha davvero guadagnato a Moḥamed l’amore della gente è stata la sua riconosciuta avversione per la corruzione. Ha ridotto le dimensioni di un pomposo governo da 39 a 18 componenti, nominandone altri dalla diaspora cui lui stesso apparteneva. Ha richiesto a tutti loro di dichiarare le loro proprietà e firmare un codice etico, una politica che, forse, aveva tratto dalla sua esperienza di lavoro per il governo dello Stato di New York, dove gli era stato richiesto di firmare una “Legge sui Pubblici Ufficiali”. Moḥamed aveva anche attinto alla propria esperienza di burocrate a Buffalo per stabilire un sistema in cui i comandanti non potevano trattenere per sé gli stipendi destinati ai soldati di basso rango.

Non tutti sono convinti che Moḥamed meriti il sostegno popolare di cui gode. “I miglioramenti in Somalia ci sono stati nonostante il governo, non grazie al governo”, dice J. Peter Pham, Direttore del Centro per l’Africa presso il Consiglio Atlantico. Pham ritiene che, per la maggior parte, Moḥamed abbia beneficiato delle basse aspettative e che il credito per aver mantenuto stabile il Paese dovrebbe andare alle forze dell’Unione Africana, che hanno fatto gran parte del lavoro per proteggere Mogadiscio e combattere ash-Shabaab. “Chiunque avrebbe conseguito un miglioramento rispetto al Presidente che lo ha nominato, che è stato ampiamente ritenuto colpevole di aver rubato circa il 96 per cento degli aiuti bilaterali”, dice Pham. Cioè 72,7 milioni di dollari che semplicemente sono scomparsi.

Ma, indipendentemente da un parere individuale sull’efficacia di Moḥamed, il suo status di eroe popolare in Somalia è stato cementato a giugno 2011, quando Moḥamed fu vittima di un accordo segreto progettato dal Presidente Sharīf Aḥmed, l’uomo che aveva nominato Moḥamed, e Sharīf Ḥasan Sheykh Aden, il Presidente del Parlamento che aspirava lui stesso alla Presidenza e vedeva Moḥamed come un ostacolo alle sue ambizioni. I due uomini concordarono di rinviare le elezioni fino ad agosto 2012, dando ad Aḥmed un altro anno di potere. Come parte dell’accordo che avrebbe dovuto congedare il suo popolare Primo Ministro.

Il contraccolpo fu immediato. Rivoltosi scesero in piazza a sostegno di Moḥamed. Bruciarono pneumatici e fecero falò, impedendo alle forze di pace di raggiungere le loro destinazioni. I soldati, di cui Moḥamed aveva conquistato la fedeltà garantendone la paga, abbandonarono i loro posti e si unirono alle proteste agitando le immagini di Moḥamed sopra le loro teste.

Comunque l’azione era stata compiuta e Moḥamed non aveva più motivo di rimanere in Somalia. Tornò da moglie e figli a Buffalo e riprese il suo ruolo di specialista regionale di conformità presso il Dipartimento dei Trasporti di New York con uno stipendio di 83.954 dollari l’anno e la promessa di una pensione statale dopo soli ulteriori sette anni di servizio.

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“Non era lo stesso”, dice Galloway, che descrive un incontro con Moḥamed dopo il ritorno a Buffalo. “Si capiva dal suo atteggiamento che non era tornato a Buffalo senza l’intenzione di tornare in Somalia”.

Giambra è d’accordo: “Dopo il suo ritorno, era deluso, ma impegnato e determinato a tornare indietro e avere un’altra chance”.

“Eravamo tutti un po’ sorpresi”, dice Shepherd descrivendo il momento in cui Moḥamed ritornò al suo box a Buffalo. “Noi tutti potevamo percepire che per lui ci fosse qualcosa di più là fuori”.

Moḥamed era contento di ricongiungersi alla sua famiglia e c’erano alcune cose che sicuramente non gli mancavano di quando era Primo Ministro. Cinque delle sue guardie del corpo erano state uccise e mai dimenticava il suono dei proiettili che colpivano le finestre rinforzate di casa sua. Ma i suoi colleghi avevano ragione che non avesse rinunciato ai suoi sogni politici in Somalia. Decise di candidarsi a Presidente nel 2012. Moḥamed, insieme con ex membri del suo Governo, fondò un nuovo partito politico chiamato Tayo – che in lingua somala significa “qualità”. Moḥamed perse al primo turno di votazione, ottenendo appena il 5 per cento dei voti. Come stoccata finale – recupero potrebbe essere un termine migliore – diede il suo appoggio al candidato in corsa contro il Presidente in carica, l’uomo che lo aveva destituito da Primo Ministro. L’uomo di Moḥamed vinse.

Moḥamed non era finito. Quasi immediatamente cominciò a gettare le basi per un’altra competizione. Fece viaggi presso comunità somale in tutto il mondo, luoghi come Minneapolis, Columbus e anche Oslo, in Norvegia. Questi sono luoghi dove vivono molte delle persone influenti che possono decidere le elezioni somale. Le comunità della diaspora sono anche una grande fonte di contributi elettorali. Nel 2015 intensificò la campagna elettorale, prendendo spesso ferie dal lavoro. “Viaggiava molto in preparazione di questa”, dice Giambra. “Era molto metodico e deliberato”.

Moḥamed utilizzava una strategia familiare ad ogni campagna americana, ma le agenzie di stampa riportavano che l’elezione si preannunciava come una classica faccenda somala, forse una delle più corrotte della storia a luci ed ombre del Paese. La sicurezza era così scarsa che un’elezione nazionale non poteva essere considerata. Solo due settimane prima del voto un attacco con autobomba a un hotel di Mogadiscio uccise 28 persone. Ciò significava che ancora una volta sarebbero rimasti in carica i 328 membri del Parlamento, un gruppo di politici notoriamente esposti alla corruzione. I prezzi sul mercato del voto erano alti, dicevano gli osservatori. Il Presidente in carica, che secondo tutte le segnalazioni durante il suo mandato aveva solo esacerbato la corruzione in Somalia, pare abbia offerto 50.000 dollari a chi avesse votato per lui nello scrutinio segreto.

Il giorno delle elezioni i parlamentari si sono riuniti a Mogadiscio, in un hangar ben protetto dell’aeroporto. Le forze di pace dell’Unione Africana stavano a guardare all’esterno, attenti a prevenire attacchi da parte di ash-Shabaab. Ai parlamentari era proibito tenere grandi quantità di denaro o telefoni cellulari nell’hangar, per timore che l’ambiente elettorale degenerasse in un’asta televisiva per voti, come già successo in passato. Nel primo turno di votazione 17 dei 21 candidati sono stati eliminati. Poi un ulteriore candidato si è ritirato, lasciando tre contendenti: Moḥamed, il Presidente uscente Moḥamud [nella foto sopra, N.d.T.] e l’ex Presidente Aḥmed, lo stesso uomo che aveva nominato e poi destituito Moḥamed sette anni prima.

Per lo shock delle agenzie di stampa internazionali, poche delle quali consideravano Moḥamed uno dei principali contendenti, al secondo turno il burocrate di Buffalo otteneva più del 50 per cento dei voti. L’ex Presidente Aḥmed era stato eliminato e, mentre le norme richiedevano che l’eventuale vincitore conquistasse i due terzi dei voti, il Presidente Moḥamud, che nel secondo turno aveva trainato Moḥamed significativamente, concedeva la sconfitta. Mentre a migliaia si precipitavano per le strade di Mogadiscio e i soldati celebravano sparando in aria con le armi automatiche, Moḥamed dichiarava in un discorso televisivo di vittoria che”questo è l’inizio dell’unità per la nazione somala, l’inizio della lotta contro ash-Shabaab e la corruzione”.

I notiziari hanno confermato in gran parte che ingenti somme di denaro avevano cambiato di mano, nonostante i tentativi di limitare la compravendita dei voti. Secondo ʿAbdi Ismā’īl Samatar, un professore dell’Università del Minnesota che faceva parte di una commissione nominata dal Parlamento per monitorare il processo elettorale e arrestare lo scambio di denaro nell’ambiente elettorale, ci sono pochi motivi per credere che alcuno dei principali candidati – Moḥamed incluso – si sia astenuto [dal farlo, N.d.T.]. “Sono abbastanza sicuro che tutti i quattro o cinque principali candidati siano profondamente implicati nella compravendita di voti”, ha detto Samatar a Politico. “Ciò include il Presidente eletto Moḥamed”.

Non è stato possibile raggiungere Moḥamed e il suo ufficio per un commento.

Ma i rapporti di un’elezione alterata non hanno offuscato il pubblico entusiasmo per il funzionario che si presentava con un programma per ripulire la palude Mogadiscio. Le celebrazioni nelle strade hanno rivelato una popolazione entusiasta di avere un Presidente che anni fa aveva conquistato il loro affetto, non una scelta di consenso palesemente corrotta dei capi clan.

“Farmaajo è tornato nel Paese e il popolo è unito”, ha detto un giovane somalo all’Agenzia France-Presse. “Benvenuto, Farmaajo, siamo sotto il sole grazie a te”.

Gli amministratori degli Stati Uniti potrebbero sentirsi altrettanto sereni per le sue prospettive. Ecco un uomo esperto sulle modalità della politica americana, che è profondamente popolare nel suo Paese, vocalmente favorevole a respingere le forze del terrorismo islamico e impegnato a portare stabilità a istituzioni vacillanti, che spesso permettono ai gruppi come ash-Shabaab di prosperare.

“Avete qualcuno che è una storia di successo, che poi può dire «Ehi, l’America non è quello che credevo. Hanno aperto le loro braccia e adesso capisco come funziona la democrazia americana»”, dice Muḥammad Fraser-Raḥīm. “Penso che è solo una vittoria per gli Stati Uniti”.

“Credo che ci fosse una certa piacevole sorpresa quando è stato eletto Presidente”, dice Richard Downie, Vice Direttore del Programma Africa al Centro Studi Strategici e Internazionali. “Non solo per i suoi collegamenti con gli Stati Uniti, ma per la sua precedente esperienza come Primo Ministro”.

Naturalmente l’elezione di Moḥamed non risolverà da sola i problemi della Somalia. Secondo John Mukum Mbaku della Brookings Institution, Moḥamed non ha alcuna speranza di reprimere la corruzione se non potrà rafforzare le deboli istituzioni che glielo permettano. E come Presidente in un sistema costituzionale che dipende dal sostegno finanziario straniero, non può mettere in atto una riforma con la sola forza di volontà. “Dato il modo in cui la Somalia è fatta, una riforma efficace nel Paese richiederà l’assistenza di molto di più dello stesso Moḥamed”, dice Mbaku. Altri, come Pham, si chiedono se Moḥamed sia proprio capace di riformare. “Non dovremmo nutrire nessuna illusione circa il tipo di partner che abbiamo in Farmaajo – e circa i suoi limiti. Gli ottimismi fuori luogo degli ultimi giorni semplicemente non sono giustificati”.

Downie la mette giù dura: “Si potrebbe mettere Nelson Mandela come Presidente della Somalia e probabilmente persisterebbe lo stesso disordine”.

Eppure, l’entusiasmo, giustificato o meno, si è diffuso. Anche ʿAbdi Ismā’īl Samatar, l’osservatore elettorale che dubita che Moḥamed abbia riportato una vittoria pulita, trova motivi di speranza. “C’è un’incredibile fame pubblica di governo pulito”, dice Samatar “e quindi, indipendentemente da come il processo sia stato e da tutti i soldi che abbia usato, c’è una fantastica opportunità per lui di indirizzare il Paese in una direzione diversa”.

Nel primo giorno del suo mandato Moḥamed ha fatto un piccolo passo avanti. Evitando qualsiasi forma di doppio gioco, si è dimesso dal Dipartimento dei Trasporti di New York.

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