IWA MONTHLY FOCUS

SULAIMĀNĪ, CASO LIBIA, EUROPA E FALSA IDEA DI OCCIDENTE

Come il ritardo di analisi mette fuori gioco le sprovvedute leadership europee

di Glauco D’Agostino

La mia personale visione della politica estera è piuttosto etica, è assodato. Un grave difetto, mi si contesta. Fuori dalla realtà.

Dedicherò questa nota alla geo-politica che, come mi insegnano i dotti, è basata sugli interessi economici territoriali. E allora seguirò questa linea.

Intanto, incominciamo a leggere la realtà del Medio Oriente e Nord-Africa in maniera da orientarci sulle più gravi crisi odierne, cioè quelle determinate dall’assassinio (oops, etico!), eliminazione del Generale Sulaimānī e l’acuirsi della crisi libica:

  • gli Stati Uniti stanno lasciando l’area perché in loco non hanno più interessi nazionali da difendere. Hanno risolto in Patria il problema dell’approvvigionamento energetico e non regge più la retorica dei diritti umani (evidentemente problema etico e di conseguenza fuori dalla cruda realtà, lo abbiamo posto a base del ragionamento);
  • l’opzione isolazionista e protezionista degli Stati Uniti costituiva la base del programma elettorale di Trump, il quale, coerente rispetto all’impegno preso con i suoi elettori, sta portando avanti la sua chiara impostazione di politica estera;
  • il vuoto lasciato dagli Stati Uniti è chiaramente colmato, con l’assenso di Washington, da Russia e Turchia, che così diventano gli interlocutori privilegiati per qualsiasi attore che voglia rivendicare diritti (oops, etico!), interessi su qualsiasi parte dell’area;
  • questo preoccupa soprattutto l’asse Tel Aviv-Riyāḍ-Il Cairo, il quale è basato su un accordo geo-politico (non certo religioso!) benedetto da Washington e che oggi, se vuole esistere ancora, deve avere l’assenso (non improbabile nel gioco degli equilibri) di Mosca e Ankara;
  • cade l’altra retorica dominante, quella di un Occidente come presunto faro di civiltà, la quale è una costruzione ideologica nata per legittimare la convergenza di interessi che ha preso il posto degli antichi deprecati imperialismi semplicemente cambiandone la denominazione;
  • diminuisce l’influenza delle potenze europee (due delle quali siedono di diritto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU), conseguenza della fine di un assetto mondiale datato ben 100 anni fa (o nella migliore delle ipotesi 75 anni fa) e che aveva determinato la nascita delle nuove nazioni di Libia, Egitto, Sudan, Israele, Giordania, Libano, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait e di tutti i potentati arabi del Golfo eccetto l’Oman;
  • si scioglie come neve al sole la pretesa politica dell’Unione Europea di avere voce in capitolo con una univoca volontà. Finalmente prende atto che la stessa non rappresenta un soggetto politico basato su nobili valori (oops, etico!), su interessi condivisi, bensì un’entità sovranazionale di natura economica il cui collante è l’euro, tra l’altro neanche condiviso da tutti i suoi membri;
  • tra le potenze dell’Unione Europea, la sola Francia è dotata di deterrenza nucleare, cioè della capacità di sedersi ai tavoli decisionali con piena legittimità (oops, etico!), con piena autorevolezza per poter difendere i propri vasti interessi, da tutta l’Africa Occidentale, all’Algeria, Libia, Libano e così via.

Gli esperti di geo-politica non concordano nel riconoscere tutte insieme queste semplici evidenze. Al massimo si può raggiungere un consenso su uno o due di questi temi, mai su tutti. Eppure sono evidenze!

È una questione di metodo, ça va sans dire. La correttezza dell’analisi dipende dalle premesse e, conseguentemente, condiziona le conclusioni che se ne traggono. Ma se questo si può dire e quell’altro no, se qualsiasi affermazione politico-accademica deve passare al vaglio della censura dell’anti-terrorismo o addirittura apre le porte a minacce di dure sanzioni, allora è la propaganda che prevale, non l’analisi.

L’accusa nei confronti degli esperti di geo-politica (non tutti!) è di omertà. Premettere le conclusioni all’analisi non è solo disonestà (concetto etico), è incompetenza o, al meglio, perseguire interessi economici di parte. Di parte, dunque.

Analizziamo le scomode evidenze proposte.

Che gli Stati Uniti stiano lasciando l’area del Medio Oriente e Nord Africa sembra contraddetto dalla linea tenuta da Washington in questo inizio d’anno. In realtà questa linea non incomincia certo con Trump. Obama la tentò (forse maldestramente) sia nel teatro afghano sia in quello siriano-iraniano, allentando la morsa imperiale americana con annunci di colloqui con i Talebani, di ritiro delle truppe, di chiusura di Guantánamo. Tutte queste iniziative non hanno avuto successo per resistenze dell’establishment americano, non certo per volontà dei suoi interlocutori internazionali. Unica eccezione il JPCOA, prima andato in porto e oggi fallito, ma che aveva l’intento di imbrigliare l’Iran entro le regole internazionali sul nucleare e quindi renderlo meno preoccupante per gli alleati USA. In ogni caso, un’ottica di disimpegno. Con Trump questo disimpegno resta una priorità, seppure attraverso metodi che contraddicono quelli prima adottati. Tuttavia, l’intento resta lo stesso, il ritiro militare in una logica di continuità rispetto ad interessi non politici, non di partito, ma funzionali alla struttura economica del Paese. Altro che diritti umani!

Se poi si volge lo sguardo ancora più indietro nella recente storia, si potrà notare che la politica estera USA verso gli Āyatollāh è stata (ed è) sempre molto realistica, prendendo atto della loro rispettabile forza economica e militare. Al di là della reciproca violenza verbale, l’Iran è stato favorito nella conquista di un consistente ruolo regionale. Il sottoscritto scriveva ad aprile del 2017: “In pratica, trenta anni di politica americana in Medio Oriente hanno determinato l’indebolimento o l’eliminazione di tutti i nemici reali e potenziali, istituzionali e politici che potevano limitarne l’espansione dell’influenza territoriale. A Oriente i Talebani (fondatori di un Emirato Islamico, ma sunnita) e al-Qāʿida (che aveva contribuito alla vittoria contro l’URSS, ma composto prima di tutto da fondamentalisti wahhābiti). A Occidente l’Iraq di Ṣaddām Ḥusayn, laico e ba’athista (come d’altra parte i siriani Asad), ma massacratore di Sciiti […] Dall’11 settembre, gli Stati Uniti hanno iniziato una lotta contro il fondamentalismo islamista sunnita, prendendo di mira dopo Ṣaddām Ḥusayn anche la rete degli Ḥaqqānī in Pakistan e lo Stato Islamico in Siria e Iraq” (https://www.islamicworld.it/wp/iwa-monthly-focus-27/).

Se prestiamo attenzione alle linee fondamentali di politica estera, l’arrivo di Trump ha solo accelerato un processo di delega della stabilizzazione alle potenze regionali che dimostrino di esserne in grado. Lo ha fatto non di soppiatto, ma presentando una precisa piattaforma elettorale che ha costituito la base dei suoi dibattiti con la signora Clinton. Ma quattro anni sono troppo lontani per gli analisti e i telegiornali che inseguono la cronaca del giorno. Questo non assolve Trump per i misfatti che ha confessato, sia chiaro. L’argomento solleverebbe scrupoli di carattere morale che, lo abbiamo detto all’inizio, sono rigettati dalla sensibilità laica ed esulano dalla geo-politica. E qui vogliamo seguire le strade della geo-politica.

Dunque, gli eredi riconosciuti degli Stati Uniti in Medio Oriente come potenze di regolazione dei rapporti restano Russia e Turchia e con loro tutti devono fare i conti. Si tratta di realismo e non di teoria, con buona pace di chi ancora cerca ispirazione negli orientamenti ideologici del passato. La prova è l’accordo sull’assetto siriano nel dopo ISIS, approvato e benedetto da Washington come elemento di stabilità. Il che significa presa d’atto dell’influenza iraniana sulla mezzaluna sciita (Iraq, Siria e Libano) e salvaguardia degli interessi turchi nella Siria settentrionale e nel Kurdistan iraqeno. E significa anche messa in mora degli striscianti dissidi geo-politici tra Iran e Turchia, che hanno le radici nella lontana storia, quando ancora la Turchia era un Sultanato e l’Iran era governata prima dalla dinastia Safavide e poi da quella Qājār; e Baġdād passava dal controllo dell’uno a quello dell’altro a seconda delle fortune belliche dei contendenti.

Questo assetto si basa sulla supervisione di Mosca, la quale non ha bisogno di giustificare il suo ruolo attraverso l’evocazione di diritti umani. Questa è geo-politica, diamine! Si tratta di salvaguardare la pace e la convivenza tra i popoli, seminando i benefici di uno sviluppo economico e sociale oggi mancante nell’area, e nello stesso tempo tutelare il ruolo delle componenti locali. Niente di diverso dalla funzione dichiarata dagli Stati Uniti per liberare quei Paesi dallo spettro dell’instabilità e del caos. Certo, sarà un processo lungo e difficile, che non significa la sparizione degli Stati Uniti dall’area, soltanto il loro disimpegno militare, con grande beneficio per la loro economia. E di certo provocherà il malcontento di fazioni locali precedentemente in auge, l’ISIS e i gestori dei suoi pozzi petroliferi, in primis; oppure il comunista PKK protetto dall’Occidente. Ma sono le esigenze del nuovo ordine a prevalere!

I leader di Israele e Arabia Saudita hanno approvato la strafexpedition di Trump contro il Generale Sulaimānī. In realtà il rischio di essere vittime di eventuali reazioni iraniane ricade sulla testa dei loro popoli e specialmente l’accorto Netanyahu (sotto processo e sotto elezioni) ne è pienamente cosciente. L’ombrello americano ancora regge. Ma per quanto sarà ancora presente? Anche la sicurezza di Tel Aviv e Riyāḍ sarà probabilmente nelle mani di Putin. E Mosca, da potenza garante e stabilizzante, non la negherà, frenando le intemperanze dei gruppi islamisti più agguerriti. Sono i bravi analisti di cui sopra a dovere ricordare oggi quanti sono stati i viaggi di Netanyahu alla corte di Putin negli ultimi tempi. E certo non per prendere un thè da samovar nella dacia del potente “Tsar”, ma forse per rendere omaggio alla rinata potenza russa che, in tutta evidenza, è la sola a poter concedere la propria mediazione per la salvaguardia degli interessi strategici israeliani.

E d’altra parte non bastano le mosse propagandistiche di Washington a rassicurare gli alleati nell’area. Il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele, delle Alture del Golan strappate alla Siria come territorio israeliano, le visite cerimoniali a Riyāḍ con tanto di inchini a corte hanno un significato amaro per l’inedito asse ebraico-wahhābita. Sono la certificazione che gli Stati Uniti si sfilano dal ruolo di mediatori e pacificatori dell’area, perché hanno deciso già da tempo di abbandonare i tavoli di composizione dei conflitti, per cui i pronunciamenti ex cathedra della Casa Bianca hanno solo un valore estetico, un significato simbolico corrispondente all’atteggiamento erroneamente interpretato come muscolare.

Il Primo Ministro israeliano Binyamin Netanyahu (Fonte: The Times of Israel)

I think tanks difficilmente hanno la sensibilità per coglierlo, ma chi governa a Tel Aviv e Riyadh sì… Non vivono a Mar-a-Lago, loro… Da quanto tempo è fermo il negoziato sulla Palestina? Cinque anni fa, già ai tempi di Obama, un titolato analista lo aveva denunciato, e ne sono testimone, in un centro studi vicino alle posizioni dell’Ambasciata americana a Roma. Fu subito zittito. Certe cose si possono dire nelle cene riservate, mai in pubblico…

L’Occidente è profondamente diviso sulla questione delle aree di influenza da quando nel secolo scorso gli Stati Uniti hanno imposto a Regno Unito, Francia, Portogallo e Paesi Bassi di liquidare i loro imperi coloniali legittimati dalla Conferenza di Berlino del 1884-85. La falsa idea di un Occidente compatto si sfalda non per motivi di rottura di una civiltà condivisa, ma per motivi geo-politici. Semmai, la questione della civiltà condivisa avrebbe comportato il riconoscimento della Russia come parte integrante dell’Europa, secondo la visione profetica di S. Giovanni Paolo II. Ma le vicende geo-politiche, si sa, non riguardano presunte identità di civilizzazione. Riguardano interessi economici, in poche parole chi paga per cosa e per chi e chi guadagna per quali vantaggi e contropartite.

Ora il problema consiste nel fatto che l’Europa, evidentemente diversa da un indifferenziato “Occidente”, non vuole prendere atto che gli Stati Uniti hanno deciso che nessun soldato dell’Arkansas o dell’Alaska morirà per difendere interessi che non siano i loro. Il che comporterebbe una revisione sul ruolo svolto dagli USA durante le Guerre Mondiali e oltre. Forse non per regalare libertà ai popoli, ma per conquistare mercati e controllo di risorse, pur elargendo quelle opportunità di sviluppo cui mai i Paesi di oltrecortina (usciti più o meno eufemisticamente vincitori nella Seconda Guerra Mondiale) hanno potuto aspirare. In pratica l’Europa non vuole fare i conti con la sua provenienza, pretende protezione da oltreatlantico.

Il convitato di pietra resta l’Unione Europea. Imperversa il dibattito tra filo-europeisti, anti-europeisti e europeisti critici ma con riserva, posizioni utili per conquistare qualche vittoria elettorale, salvo a disattendere puntualmente perfino le premesse sbagliate su cui le fortune di improvvisati statisti sono state costruite. L’Europa adesso è invocata come il giocatore che può risolvere la situazione, ma già affiorano i distinguo tra chi difende l’operato passato e chi pretende atteggiamenti riformisti, anzi una rivoluzione nel suo agire. Ancora una volta, inefficienza nelle analisi, disabitudine a giudicare, anzi consuetudine a de-responsabilizzarsi.

L’Unione Europea non è un soggetto politico. Non lo è dalla sua nascita e probabilmente non lo sarà mai. Le istituzioni che hanno condotto alla formazione dell’Unione Europea erano funzionali alla costruzione di un blocco occidentale contrapposto all’allora minacciosa Unione Sovietica e quindi una chiara e utile realizzazione geo-politica, ma senza autonomia decisionale (rimasta in capo ai governi) e militare (rimasta in capo alla NATO). Basta osservare la correlazione tra allargamento europeo dopo la caduta del Muro di Berlino e la corrispondente progressione delle adesioni alla NATO. Fino al passo falso dell’Ucraina, che la stessa Ucraina paga, mica l’Unione Europea… Le dichiarazioni dell’inquilino della Casa Bianca rispetto all’esaurito ruolo della NATO (parte del suo programma elettorale) ha spiazzato governi e think tanks europei, che hanno prudentemente preferito non parlarne, pena la fine della loro ragion d’essere.

Le stesse considerazioni valgono per il consunto dibattito tra filo-francesi e filo-tedeschi presente nei Paesi europei con maggiore ritardo nello sviluppo o con minore influenza geo-politica. Falso dibattito che però è indicativo dell’inconsistenza non solo dei governi, ma delle opinioni pubbliche europee. Rispolverare simili partigianerie in tempi di sovranismo significa retrodatare la visione alla Seconda Guerra Mondiale o, peggio, alla Prima Guerra Mondiale e poco manca che si risollevi l’antica diatriba dell’appartenenza nazionale di Alsazia e Lorena; terreno minato per alcuni Paesi se, per esempio, si parla di Libia, visto che alcuni subiscono la nemesi storica del ritorno agli equilibri del 1911. Significa anche (e potrebbe essere corretto) prendere atto che alleanze contro piuttosto che pro possono essere temporanee, ma non sanano controversie interne. Significa che, al di là dei propri confini, gli assetti scaturenti dai grandi conflitti non possono durare in eterno (vedi i destini di Yugoslavia e Cecoslovacchia, cancellati dalla carta geografica). Significa che l’importanza geo-politica delle nazioni non dipende dai contingenti regimi politico-istituzionali (democratici, autoritari, dittatoriali, monarchici, repubblicani) e che quindi stati pur sconfitti in passato ritornano sulla scena internazionale in virtù delle loro capacità strutturali di interpretare i bisogni e gli interessi dei popoli che rappresentano.

Complicato? Allora semplifichiamo. Questione Libia. Accordo Putin-Erdoğan. I due si spartiscono la Libia. Non è giusto. È contro la libera auto-determinazione dei popoli sancita già ai tempi della Carta Atlantica. Non fa una grinza. Ma gli stessi stati che oggi protestano per la Libia cosa ci facevano (e ci fanno) in Iraq e in Afghanistan? Spartiscono potere e risorse? È la geo-politica, bellezza… Solo che bisogna raccontarlo ai rispettivi popoli che le motivazioni non sono ideali, che non c’entrano niente terrorismo e diritti umani, opzioni religiose e basse speculazioni derivanti, c’entrano interessi economici e soprattutto energetici, c’entra il business delle ricostruzioni, in qualche caso c’entra il controllo delle sostanze illegali prelevate nei Paesi produttori e consumate sul proprio territorio e così via.

Bisognerebbe anche ammettere che in alcune democrazie europee i vertici delle compagnie petrolifere contano oggi e contavano in passato più dei rispettivi primi ministri e ministri degli esteri. Quando non vengono fatti fuori come l’italiano Mattei. Più o meno con gli stessi metodi (ma non con le stesse rivendicazioni) di quelli utilizzati per l’eliminazione di Sulaimānī.

Dunque, guerra per procura quella tra Sarraj e Ḥaftar, oggi difesi alternativamente da Erdoğan e Putin. Ma ieri? La guerra di Libia non scoppia per nobili motivazioni inerenti al ruolo di Gheddafi. Solo in pochi (tra cui chi scrive) pensava che fosse giusto onorare i 1.270 Fratelli Musulmani massacrati nel carcere di Abū Salīm dal controverso colonnello (prima bollato come terrorista e poi ammesso nell’esclusivo club degli amici degli Americani). Invece, la contrapposizione Italia-Francia è alla base del conflitto. Eni e Total non compaiono mai negli accorti commenti degli analisti, per lo meno sugli organi di comunicazione di massa. Macron è silente al riguardo. L’Italia, come sempre prudente, preferisce fare appelli alla pace, invoca lo spirito unitario dell’Unione Europea, la famosa voce unica. Quale voce unica europea se quella in Libia è una guerra per procura italo-francese? Truppe sul campo? Scusate l’ardire. Oggi si chiamano contractors. Dipende dai mandanti, qualche volta si chiamano mercenari. Solo russi? Beh, questo ce lo devono dire gli analisti. O forse è meglio di no…

Paradossale la posizione italiana. Rivendica diritti sulla Libia. Giusto, se gli interessi si chiamano diritti. Ma, come notavamo all’inizio, i diritti sono un concetto etico. Gli stessi diritti che un anno fa l’Italia negava all’alleato turco (alleato in quanto membro NATO) sullo sfruttamento energetico nel Mediterraneo orientale, mentre si accordava con l’Egitto di Sīsī in una perfetta intesa geo-economica targata Eni. Forse non è il caso oggi di leggere l’accordo Putin-Erdoğan come finalizzato alla spartizione della Libia. Forse non è il caso di mettere sullo stesso piano Sarraj e Ḥaftar, se si ricorda che il primo è frutto sì di attività della diplomazia italiana, ma con il consenso tacito della Turchia che all’epoca difese gli interessi petroliferi italiani a Tripoli. Troppo comodo se a pagare sono gli altri.

Qualche sconsiderato diplomatico già accreditato presso la Casa Bianca avalla questa ubriacatura, veicolando ancora fuorvianti idee anti-storiche e ripetendo slogan utili in passato alla potenza dominante per motivi molto contingenti. Il riferimento è alla propaganda che ancora oggi inutili ex inquilini della Farnesina propongono nei confronti dei Fratelli Musulmani, apostrofati come terroristi nel momento in cui gli interessi nazionali italiani sono difesi proprio da loro a Tripoli e Misurata. Tradimento della Patria, si sarebbe detto un tempo. Ma ancora una volta il concetto è etico e qualcuno potrebbe far rilevare che il concetto di onore è ormai fuori tempo.

Ankara è leale verso l’Italia e verso l’alleato Sarraj, inviando truppe alla luce del sole e non contractors a chi gli aveva chiesto aiuto. Certo, uno se lo deve poter permettere. E questo non è il caso dell’Italia, certamente per limitazioni alla libertà di esercitare la propria politica estera, ma che non giustificano la politica dei doppi forni, che invece caratterizza le grandi potenze. Il dibattito sulla politica estera è scarsissimo in Italia. Una ex Presidente della RAI, l’emittente televisiva di stato, nel momento in cui scrivo, sottolinea su una rete televisiva di stato che oggi domenica vi sono importanti appuntamenti in agenda. Bene. Ci aspettiamo notizie sulla Conferenza di Berlino in atto, dove si giocano i destini dell’Italia in Libia. Neanche per idea! La brava giornalista si riferisce all’appuntamento che le sardine (le sardine, capite!) hanno annunciato a Bologna e all’anniversario della morte dell’ex Primo Ministro Craxi in Tunisia venti anni fa.

Il disinteresse per la politica estera è frutto di impreparazione sull’argomento ed è presto spiegato. Per 75 anni bastava seguire le direttive delle veline elargite dalla Casa Bianca e questo assicurava la prosperità e il benessere che effettivamente Washington ha concesso al Bel Paese. Oggi, il richiamo di Trump ad alcuni alleati perché paghino le spese arretrate dovute alla NATO per coprire la loro sicurezza, ha provocato uno choc anche a Palazzo Chigi e alla Farnesina, ma ha contribuito a svelare chi per 75 anni aveva effettivamente pagato quella prosperità e quel benessere. Altro che nostalgia della Prima Repubblica…!

In Italia si sprecano le critiche a Erdoğan [foto a lato] e alla sua politica “repressiva”, si moltiplicano i corrispondenti di guerra pronti a condannare Ankara e il suo “Califfo” su tutti i fronti, si offre solidarietà ai Curdi anti-turchi del PKK. Un’emittente televisiva di grande ascolto ha addirittura definito Tripoli l’ormai ex capitale della Libia. Un ex Primo Ministro attuale partner della coalizione di maggioranza tuona: “Mai i Turchi in Libia”, richiamando meriti storici dell’Italia per l’unità della Libia. A parte il fatto che l’unità della Libia si deve in tempi storici ai Qaramanli e in tempi recenti alla Confraternita islamica Sanūsiyya, ma oggi senza i Turchi in Libia, Tripoli cade e viene consegnata a Macron, che già controlla il Sahel e molto probabilmente il Fezzan, zona strategica di congiunzione tra il Maghreb e il Tchad.

As-Saraya al-Hamra, il Castello Rosso di Tripoli

La Moschea di Piazza Algeria a Tripoli, capitale della Libia (foto Abdul-Jawad Elhusuni)

Ma che gioco è? Si accorgono i vari governi di Roma (di destra, di sinistra, ma sempre uno diverso ogni anno) che anche il persistente atteggiamento degli organi di stampa, quasi mai confutato da una pur minima interpretazione governativa, significa affossare la propria credibilità internazionale? La percezione della politica estera italiana è delegata ai talk-show, ai tweet, alle fugaci interviste rese per strada ad improbabili giornalisti. Significa confondere l’opinione pubblica circa i propri interessi, sacrificarli sull’altare di un arduo “politicamente corretto”, ma contemporaneamente pretendere solidarietà nel momento del bisogno e insieme protagonismo sullo scacchiere internazionale.

La Turchia, reduce da un anti-democratico tentativo di colpo di stato probabilmente ordito da Paesi amici, si è finalmente smarcata dal “politicamente corretto” e ha conquistato il proprio autonomo ruolo internazionale. Oggi Ankara contribuisce a gestire le carte, non è più un anonimo comprimario da utilizzare per fini altrui. Il suo secondo esercito più potente della NATO può oggi assicurare alla Turchia l’autorevolezza di contenere l’esuberanza di Parigi, la quale, con la Brexit, resta l’unica potenza nucleare dell’Unione Europea.

In virtù di questa sua prerogativa conquistata in tempi e assetti remoti, non mi pare che qualcuno abbia avuto o abbia l’ardire di considerare le truppe o le basi militari francesi presenti in tutta l’Africa Occidentale come “occupazione” finalizzata allo sfruttamento delle risorse locali. Né che sia stato spesso menzionato, per esempio, il ruolo monopolistico di Francia e Gran Bretagna in Gabon, Camerun e Congo-Brazzaville. Nel primo, la francese Total, l’anglo-olandese Shell e l’anglo-francese Perenco assieme raggiungono l’80% della produzione totale nazionale di petrolio. Negli altri due Paesi, sempre la Total detiene una quota del 70% in ciascuno di loro. Per nessuno gli interventi militari francesi in Mali o in Costa d’Avorio sono stati frutto di neo-imperialismo e guai ad evocare la Françafrique o pretese di mantenere la propria influenza politica, economica e militare. Erano naturalmente inquadrati nella stabilizzazione della regione, specie dopo gli attacchi di un indistinto islamismo militante che andava, con l’assenso di tutti, bloccato e punito.

Il G5 Sahel, che ha finalità di anti-terrorismo e sicurezza, è frutto della diplomazia francese. Parigi ha proposto questo quadro istituzionale di coordinamento al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (di cui è membro permanente con diritto di veto) che lo ha approvato. Tutte le carte sono in regola e dunque lo finanzia non solo la Francia, ma anche e giustamente l’Unione Europea. Per non parlare delle miniere di uranio in Niger. Rappresentano un legittimo interesse nazionale francese, riconosciuto in virtù dello status di potenza nucleare intangibile, mica come la Repubblica Islamica dell’Iran, che ha chiesto solo di utilizzare il nucleare per fini civili. Ma, come è noto (o forse no), l’Iran ha tenuto una posizione neutrale e pacifista nelle due guerre mondiali e deve pagarne le conseguenze.

Sia ben chiaro. Questo non è un attacco alla Francia, in omaggio all’impostazione iniziale che non intende dispensare giudizi etici. Anzi. È la fotografia di un quadro geo-politico che avalla il prestigio di una nazione, la quale non solo impone i suoi interessi come prioritari e irrinunciabili, ma ha la forza di farli riconoscere dall’entità sovranazionale cui appartiene. A proposito dell’Italia, la coscienza di non poter seguire la stessa strada, in quanto nazione sconfitta e tributaria di interessi primari altrui, dovrebbe consigliarla a cercare altre soluzioni.

Non sta a noi avere la pretesa di suggerire queste soluzioni, mi sembra ovvio. Ma qualche volta saper riconoscere i corretti compagni di strada nella caotica situazione geo-politica attuale, quelli che possono essere almeno utili per il raggiungimento dei propri fini economici strategici, aiuta a non cadere nelle periodiche fasi di stallo che attraversa. Specie nella politica interna, considerata come strumento per affermazione di potere localistico e poco frequentemente come rafforzamento della propria credibilità internazionale.

A patto di avere una strategia di grande respiro e una programmazione di lungo periodo!

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