Gaza-Israele – La pericolosità di Mr. Binyamin, entità dalle vampe incandescenti

L’inettitudine dell’Occidente, le reazioni sdegnate di molti Ebrei della diaspora e l’imbarazzo di alcuni Paesi Arabi. I Palestinesi: Siamo soli in questo mondo

di Glauco D’Agostino

Binyamin Netanyahu, Primo Ministro di Israele

Il perseguimento della “soluzione finale”

Genocidio? Massacro? Pulizia etnica? Questo o quello per me pari sono. Mentre il mondo intero disquisisce ipocritamente sulla fattispecie giuridica dell’Olocausto palestinese, l’infame assedio di una popolazione inerme continua senza che nessuno abbia il coraggio e l’onore di fermare lo sterminio scientificamente programmato di una nazione che cerca di affermare se stessa nel diritto di esistere. Ormai la Striscia di Gaza è un campo di concentramento senza via d’uscita e senza approvvigionamenti in entrata (nelle foto sotto, i danni causati dai bombardamenti dal 2023 e Gaza City nel 2007).

Foto di Naaman Omar, apaimages

Gli aggettivi per mostrare un qualche segno di vicinanza verso un popolo alla fame non si sprecano tanto, visto che molti soggetti istituzionali e politici nella comunità internazionale sono in qualche maniera coinvolti con il sistema affaristico israeliano, primo tra tutti quello dell’ignominioso traffico di armi che determina il destino dei popoli.

Ormai il mondo è così abituato all’assassinio personalizzato degli avversari, perpetrato dai possessori di tecnologia avanzata, da giudicare ammissibile e corretto quello che solo qualche anno fa veniva considerato “danno collaterale” per cui scusarsi. Non solo i bombardamenti aerei indiscriminati sulle infrastrutture civili e sanitarie, ma oggi sono la normalità i “pogrom” anti-islamici a Gaza e soprattutto in Cisgiordania, di cui poco i network multimediali internazionali si occupano. Motivi di opportunità, si intende.

Così, mentre Tel Aviv vara nei territori occupati 22 nuovi insediamenti (illegali secondo il diritto internazionale), il Ministro della Difesa Israel Katz promette sfrontatamente “uno Stato ebraico-israeliano” in Cisgiordania e il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, a proposito di Gaza, istiga il governo ad “entrare con tutta la forza, senza battere ciglio”.

L’intenzione dell’aggressore sionista non è ormai dissimulata, è esplicita quanto la sua determinazione nel perseguire la “soluzione finale”.

Continueremo a distruggere le case di Gaza finché i Palestinesi non avranno più alcun riparo e non resterà loro altro che andarsene. L’unico problema è trovare Paesi disposti ad accoglierli.

Sono le parole di Mr. Binyamin, simili a quelle pronunciate da vari esponenti estremisti della maggioranza di governo, cui nulla è precluso in virtù della strumentalizzazione di un ricordo che riguarda il popolo ebraico, non Israele in quanto stato e che non è certo il detentore né la migliore manifestazione della nobile tradizione ebraica.

Manca solo l’accusa per un rogo alla Knesset per legittimare le nefandezze di un regime democratico espressione della civiltà occidentale, così come 92 anni fa accadde in Germania. La storia si ripete a parti invertite e Mr. Binyamin conosce bene la storia.

La Convenzione ONU sul genocidio. Un Tribunale a Tel Aviv?

Quello che sta avvenendo in Palestina è l’annessione di territori arabo-islamici di tradizione ultra-millenaria, attraverso l’uso di una forza militare inarrestabile e dai connotati terroristici inequivocabili, che il mondo intero si guarda bene dal contrastare, eccetto qualche voce di condanna verbale senza seguito di atti concreti, non di carattere militare improponibile ma nemmeno di carattere diplomatico, che limitino l’agibilità di una furia biblica non consentita e blasfema.

La Città Vecchia

La Cupola della Roccia

Per mettere con le spalle al muro il regime autocratico di Tel Aviv basterebbe solo, sul piano diplomatico, citare l’occupazione illegittima di Gerusalemme Est contro il diritto internazionale e la proclamazione di quella Città Santa (foto a lato) come capitale dello Stato Ebraico. Ma chi dovrebbe farlo? Gli Stati democratici occidentali complici delle atrocità dell’alleato Israele dai tempi di Sabra e Shatila?

Non facciamo ridere ricorrendo alla legalità internazionale. Conosciamo bene i nobili enunciati della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, il suo Articolo II(c) Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolate per provocarne la distruzione fisica e il seguente articolo III(e) Complicità in genocidio. Bastano le disposizioni di quest’ultimo articolo citato per indurre qualsiasi esponente di Stato democratico occidentale a riconoscere i genocidi israeliani, pena, in un indefinito domani, la comparizione davanti a un Tribunale stile Norimberga, magari un Tribunale di Tel Aviv, con l’accusa di complicità in genocidio?

Gli USA, l’UE, i Paesi Arabi

Gaza è sola. Si intende, sul piano internazionale istituzionale, non certo tra la pubblica opinione, che assiste, impotente, alla vigliaccheria delle egemonie dominanti, false espressioni della sua volontà. Gli Stati Uniti, che di massacri si intendono per via delle “operazioni speciali antiterrorismo” degli ultimi due decenni, arrivano 25 anni dopo per cercare una mediazione che non sia troppo impegnativa per gli aggressori a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Siria – una pace giusta, insomma.

L’Unione Europea, che, spacciandosi comunemente per l’intera Europa, pretende qualificata voce in capitolo come potenza economica mondiale più che come mera espressione geografica, è molto misurata persino nelle parole. Mentre assiste alle diatribe tra “volenterosi” allargati a Paesi extra-comunitari (ma solo per il confine continentale orientale e mai per l’area mediterranea), annovera tra i suoi membri Paesi con il complesso degli aggressori perdenti di 80 anni fa, che si rifiutano persino di votare simboliche e ininfluenti sanzioni contro Israele per timore delle accuse di antisemitismo o, peggio, delle punizioni divine per aver contrastato il Popolo Eletto.

Cosa consente di identificare la radicalizzazione politico-razziale di Israele con il Popolo Eletto? L’inefficienza occidentale delle scuole di diplomazia e storia? Questo è certo. Ma anche l’indifferenza per le sorti dei popoli indifesi, mentre le assemblee delle grasse istituzioni politiche e finanziarie delle due sponde nord-atlantiche si sollazzano controllando lo spread e conseguendo l’insider trading di cui i media non parlano mai e che certo non turba il sonno dei malfattori di stato.

Inquietante anche il sostanziale silenzio politico, al di là delle dichiarazioni di solidarietà di prammatica, di molti governi arabi, alcuni dei quali allettati dalle convenienze commerciali offerte dagli Accordi di Abramo, senza pretendere le garanzie da parte di Tel Aviv del rispetto dell’integrità territoriale palestinese affermata dal diritto internazionale, dell’ottemperanza dei doveri verso le popolazioni sottomesse e dell’arresto della colonizzazione selvaggia diventata ormai parte della dispotica e discriminatoria legislazione statale. Questa accondiscendenza, specie se senza il favore degli organismi multinazionali istituzionali e religiosi su cui fanno affidamento, rende alcuni Paesi arabi in una posizione di inammissibile influenzabilità politica. Forse il recente rifiuto di Tel Aviv alla visita in Cisgiordania dei Ministri degli Esteri di Egitto, Giordania, EAU, Arabia Saudita e Qatar è stato salutare e ha aperto loro gli occhi sull’indefinita situazione politico-istituzionale in cui versano i Territori Occupati e sulla vera natura impudente di Israele.

Lo “stato canaglia” e il “regime change”

L’aggressivo comportamento israeliano di conquista su tutti i fronti, da Gaza alla Cisgiordania al Golan e al sud del Libano, sta riproponendo lo schema della volontà di potenza dei più brutali dominatori tale da individuare il regime di Tel Aviv come il vero “stato canaglia”, la peggiore avanguardia del mondo occidentale. E tuttavia, Mr. Binyamin rischia prima o poi la sorte che nella mitologia mesopotamica toccò a Humbaba (nella foto a lato, una sua immagine di terracotta), la mostruosa entità dalle vampe incandescenti, combattendo l’eroe Gilgameš.

Il mantra dei “due popoli, due stati”, che ispira molti dei governanti impegnati a trovare una soluzione pacifica accettabile, non è più da tempo proponibile se uno dei due stati manca ormai di territorio e se le lobbies economico-finanziarie progettano senza significative reazioni che uno dei due popoli sia deportato fuori dai confini attuali presso Paesi che dimostrino volontà di accoglienza. Tranquilli, non si tratta di Israele o degli Ebrei, anche se alcuni intenderebbero chiedere al Texas o al New Mexico la disponibilità ad accoglierli vista l’ampiezza delle aree e la possibilità di sfruttamento economico dei territori.

In questa situazione di girone infernale per le prospettive palestinesi e di biasimo per la follia distruttrice di cui Tel Aviv è ormai preda, la palla passa all’opinione pubblica di Israele. Un “regime change”? Espressione riservata ai succubi media controllati dagli ipocriti governi occidentali per auspicare, tra risate e lazzi di scherno da avanspettacolo, la caduta di governi sgraditi agli interessi di lobbies e affaristi di ogni genere. Oggi, con più consapevolezza e inquietudine, l’augurio di un “regime change” si fa strada come una delle soluzioni possibili per poter mettere ordine nelle disastrate istituzioni israeliane, tutte sotto l’inconfessabile capacità di ricatto esercitata da alcune frange interne altamente radicalizzate. Ecco la pericolosità di Mr. Binyamin, non solo per Gaza.

Le reazioni degli “infuriati Ebrei della diaspora”

Manifestazioni anti-Israele in Australia

Chiariamo che questo ormai generalizzato sentimento di riprovazione riguarda l’ambito delle decisioni geo-politiche e non coinvolge neanche lontanamente il popolo ebraico e l’Ebraismo. Anzi, tra gli Ebrei più intransigenti ci sono anche gli “infuriati Ebrei della diaspora”, così come li chiama Esther Solomon, caporedattore della versione in lingua inglese di Haaretz, il più antico e influente quotidiano israeliano. Molte personalità, intellettuali sostenitori dei più variegati ambienti ebraici della diaspora, hanno infatti apertamente preso le distanze dalla deriva autolesionista della leadership israeliana, che rischia di presentare un’immagine negativa di gran parte della società nazionale sul piano etnico e religioso.

Alcune opinioni di seguito presentate, pur critiche nei confronti del governo israeliano, non sono tutte omologate ad un pensiero unico né ciascuna pretende di rappresentare posizioni prevalenti nel mondo ebraico. Tuttavia, è doveroso prenderne atto, tanto più se discriminate o minoritarie.

Dal Regno Unito proviene una severa critica contro l’escalation della guerra contro Gaza. La presa di posizione giunge da alcuni membri di una delle più antiche organizzazioni ebraiche del Regno: il Consiglio dei Rappresentanti degli Ebrei Britannici, di cui nel passato fu leader il 2° Barone Rothschild, il leader sionista cui fu indirizzata la famigerata Dichiarazione Balfour del 1917 foriera della colonizzazione della Palestina. Nel clima attuale, 36 rappresentanti delle rispettive sinagoghe, disapprovando l’operato del governo israeliano, in pratica segnalano come sia priva di fondamento l’affermazione del Primo Ministro secondo cui qualsiasi critica alle sue politiche sia “antisemita”. Il Consiglio, nonostante la sua Vice Presidente della Divisione Internazionale abbia firmato il documento, ha biasimato il suo contenuto, che dice tra l’altro:

L’anima di Israele viene strappata via e noi, membri del Consiglio dei Deputati degli Ebrei Britannici, temiamo per il futuro di Israele, che amiamo e con cui abbiamo legami così stretti.

La storica italiana Anna Foa, di famiglia e religione ebraica, parla senza mezzi termini di suicidio di Israele: “Stiamo andando nella direzione di una pulizia etnica … Le dichiarazioni di Netanyahu e dei suoi ministri sull’annessione di Gaza, insieme con i massacri, sono un avvicinamento dello stato israeliano al suicidio”. E nell’ultimo suo libro la scrittrice è critica anche verso l’Ebraismo europeo: “Oggi l’ebraismo europeo è privo di ogni progetto culturale e politico, di ogni autonomia rispetto a Israele”.

Moni Ovadia, poliedrico artista ebreo, italiano di adozione, ma bulgaro di nascita e di cultura yiddish est-europea, inveisce contro Israele e il sionismo: “Io sono tra quelli che pensano che il governo d’Israele stia compiendo un’operazione di carattere genocidario. Sono anni che i governi israeliani compiono contro il popolo palestinese un etnocidio, cioè mirano a cancellare il popolo palestinese in quanto tale … Tutti parlano del sionismo come se fosse una specie di forza angelica, ma il sionismo è un movimento colonialista, presentato al mondo con lo slogan «una terra senza popolo per un popolo senza terra». In quella terra c’erano 1 milione e mezzo di arabi palestinesi”.

Foto di Gustavo Grobocopatel

Tra le voci ebraiche più inflessibili nella condanna alle politiche di aggressione attuate dallo Stato di Israele, ci sono vari movimenti anti-sionisti, che cioè rifiutano l’istituzione di uno stato ebraico prima della venuta del Messia, in quanto ritenuto in violazione dei Tre Giuramenti presenti nel Talmud babilonese per le modalità della sua creazione con l’uso della forza. Per questo, ad esempio, la Comunità Haredi di Gerusalemme avversa la Legge del Ritorno che garantisce la cittadinanza israeliana a ogni persona di discendenza ebraica del mondo. Il Gaon Moshe Sternbuch, Capo del suo Tribunale Rabbinico, sostiene la mancanza di collegamento tra l’attuale esistenza di uno Stato ebraico e la redenzione del popolo ebraico nella Terra d’Israele.

Protesta anti-israeliana di Ebrei haredi a New York

Sulla stessa scia, Neturei Karta, formalmente una ONG Internazionale di affiliazione haredi, si spinge a sostenere uno Stato palestinese. Il suo portavoce Rabbi Yisroel Dovid Weiss, americano di origini polacco-ungheresi nato a New York e lì residente, propone un’opposizione pacifica all’esistenza dello Stato di Israele e la restituzione delle terre sottratte ai Palestinesi. E dice: “Il Sionismo è una trasformazione in nazionalismo, privo di Dio … Si definiscono una democrazia … L’Ebraismo non è una democrazia. È una religione”. Anti-semitismo anche questo? Peccato che l’accusa non abbia alcun fondamento se la maggior parte dei suoi familiari è stata trucidata ad Auschwitz. In quanto Ebrei, naturalmente.

Nonostante le critiche ricevute per il suo comportamento anti-conformista, compresa la partecipazione in Sudafrica al Quinto Congresso Globale di Solidarietà con la Palestina, forse Rabbi Weiss non vorrebbe per i Palestinesi la stessa tragica sorte dei suoi antenati.

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