OCCIDENTE IN ISOLAMENTO PROGRESSIVO, SANZIONI DIVISIVE E ASIA SOTTO EGIDA RUSSO-CINESE

di Glauco D’Agostino

È Foreign Policy, la rivista USA di proprietà del Washington Post, a ricordarci lunedì scorso che l’India è la più grande democrazia del mondo. E che un’altra grande democrazia, il Brasile, come l’India, non ha condannato la Russia all’Assemblea Generale dell’ONU e non ha imposto sanzioni come invece l’Occidente ha fatto. Lo stesso per quanto riguarda la sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, visto che altre grandi democrazie, tra cui il Sud Africa, la Nigeria, il Messico, il Pakistan e l’Indonesia hanno rifiutato di votarla.

In quell’articolo, l’Ambasciatore Shivshankar Menon, ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale ed ex Ministro degli Esteri indiano, rifiuta la dicotomia democrazie-non democrazie, cogliendo l’essenza del problema geo-politico, ben più complesso che non i facili slogan da gettare in pasto all’opinione pubblica. Al di là delle considerazioni dell’Ambasciatore, che segue un suo percorso da ex diplomatico di rango, il tema è quello della propaganda fuorviante che l’Occidente persegue in merito all’unità delle democrazie come contrapposte agli autoritarismi. Questo è un tema ideologico, ma le relazioni internazionali seguono la strada della geo-politica, che è ben altra disciplina e su cui il mondo occidentale ha un ritardo ormai ultra-decennale. Significa mancanza di prospettive, di argomenti e di risorse intellettuali da mettere in campo. Il suo sgretolamento è ormai in atto perché basato su un presupposto debole che è perdurato per ottanta anni, troppi per la velocità interattiva del XXI secolo.

L’Occidente si sta isolando dal resto del mondo e la causa è lo sproporzionato uso ideologico delle sanzioni. Analisti come Rawi Abdelal, economista presso la Harvard Business School, lo hanno detto a chiare lettere, sottolineando che sono diventate uno strumento che gli Stati Uniti utilizzano come arma di guerra economica contro i loro competitori. Anche le inique sanzioni contro la Russia e la Repubblica Islamica dell’Iran sono di questo tipo e poco hanno a che fare con i diritti umani.

La strategia di economia bellica potrebbe essere ancora corretta se corrispondesse agli interessi di tutto quel mondo occidentale che si richiama enfaticamente spesso a sproposito. Solo che questa strategia ha ben poco di strategico, cioè non tiene conto degli effetti sul lungo periodo. Mancanza di adeguata programmazione. Due gli errori fondamentali: non tenere conto che gli interessi economici dei partner non camminano sulle gambe degli assetti istituzionali (democratici o non); non aver calcolato gli effetti delle sanzioni secondarie extraterritoriali, per cui sono sotto sanzioni non solo i Paesi designati (o addirittura loro esponenti di spicco, una vera barbarie), ma anche tutti coloro che osano sfidare i divieti unilateralmente decisi da Washington. Queste valutazioni sono in progress sia negli Stati Uniti sia in Europa. Forse tardive, ma ormai opportune.

Gli effetti sono lo scollamento delle posizioni precostituite delle alleanze politiche e l’indebolimento di quelle militari. Gli altri, i sanzionati, non restano isolati, bensì rafforzano i loro legami di interesse geo-politico difensivo, superando le divisioni ideologiche, politiche e storiche ormai inutili nell’ordine mondiale che si va costruendo. Dopo l’ingresso dell’Iran, l’Asia è ormai quasi tutta sotto l’egida dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) (vedi mio articolo TEHRĀN TOWARDS BEIJING AND MOSCOW in GeoPolitica), con l’esclusione dei Paesi del Pacifico esterni alla Cina, quelli del sud-est asiatico e il Turkmenistan da sempre neutrale. La SCO raggruppa Paesi che rappresentano oggi il 40% della popolazione mondiale e il 20% del PIL globale.

L’Europa mostra sempre di più le sue divisioni interne sulla politica energetica, ma soprattutto divisioni verso i partner esterni. Il diktat americano sulle sanzioni contro la Russia viene percepito da molti Europei come un’interferenza nell’autonomia decisionale delle sue istituzioni, l’Unione Europea in primis. E quando i Paesi europei più colpiti dalle loro stesse sanzioni (Germania e Italia, per esempio) si trovano in difficoltà, tutta la retorica sul primato delle democrazie svanisce, se i loro inermi governi sono costretti ad andare in pellegrinaggio per richiedere maggiori forniture energetiche presso Paesi considerati autocrazie.

Il Nuovo Corridoio Economico del Ponte Terrestre dell’Eurasia, uno dei progetti della Nuova Via della Seta

“Pecunia non olet”, si dice. In questo caso, il gas americano non profuma più di quello autocratico, specialmente se costa di più. L’OPEC è stata anche chiara rispetto alla richiesta dell’Unione Europea di aumentare la produzione per far fronte alla mancata importazione di petrolio russo. Anzi, l’Arabia Saudita, che è il maggiore esportatore di petrolio al mondo, ha esplicitato che l’OPEC+ (l’organizzazione allargata ad altri produttori non-OPEC, tra cui la Russia) “lascerà la politica fuori dal suo processo decisionale”. Ecco il risultato della retorica delle democrazie.

A giugno di due anni fa scrivevo in un articolo (vedi DOPO LA PANDEMIA): “L’ascesa della Cina potrebbe inaugurare un nuovo bipolarismo, in cui in ogni caso Russia, Turchia e India non farebbero da comparse, ma si ritaglierebbero il ruolo di regolatori degli ordini regionali di riferimento. Non si tratterebbe di un ritorno ai vecchi equilibri mondiali con la semplice sostituzione di uno dei contendenti, cioè l’avvicendamento dell’ormai scomparsa Unione Sovietica con la sempiterna Repubblica Popolare Cinese. Due le differenze fondamentali: l’atteggiamento nei confronti dell’economia americana e occidentale, isolazionista nel caso dell’URSS, fortemente integrata nel caso cinese; l’attitudine nelle politiche d’influenza regionale, ideologica nel primo caso e meramente utilitaristica nel secondo”.

E cinque anni fa in un altro articolo  (vedi MAR NERO: VERSO AREE D’INFLUENZA SULL’ASSE ANKARA-MOSCA?) scrivevo: “Il percorso Chișinău-Tiraspol’-Comrat-Odessa-Sevastopol’-Simferopol’-Donetsk-Lugansk-Sukhumi-Tskhinvali [è] una lunga catena di trasmissione del potere russo, in cui la parte centrale del tragitto (la Crimea, con la sua base navale della Flotta Russa del Mar Nero) è in modo indicativo e risolutivo già territorio della Federazione e il resto ne costituisce un complemento informale. Se questo è vero, l’altro percorso Sofia-Bucarest-Kiev-Tbilisi, l’asse politico che i detrattori accusano di essere al servizio dell’Occidente, sembra non funzionare più proprio per le mutate condizioni geo-politiche. L’Occidente, impegnato a contrastare un nemico “terrorista” sempre più sfuggente, si sfarina come concetto e come garante degli equilibri territoriali che aveva contribuito a determinare ormai più di 70 anni fa”.

Il Consigliere di Stato e Ministro degli Esteri cinese Wáng Yì (a sinistra) e il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov

Chiudo queste brevi considerazioni con quanto affermava il rapporto China’s National Defense in the New Era pubblicato da Pechino a luglio 2019: “Mentre il riallineamento delle potenze internazionali accelera e la forza dei mercati emergenti e dei Paesi in via di sviluppo continua a crescere, la configurazione del potere strategico sta diventando più equilibrata”.

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