IWA MONTHLY FOCUS

L’AFRICA CENTRALE TRA GOLPE, MASSONERIA E INTERVENTI MILITARI

In mancanza di valori unificanti, il neo-colonialismo economico e politico sta distruggendo il modello nazionale sbocciato dalle indipendenze. Il ruolo storico dell’Islam

di Glauco D’Agostino

Se diamo uno sguardo all’area dell’Africa Centrale, dal Niger al Kenia e dal Sudan al Congo, troveremo una geografia politica composta di Stati disegnati artificialmente dai poteri coloniali del XX secolo (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Italia, Spagna), i quali, al momento di concedere loro l’indipendenza, individuarono frontiere arbitrarie, senza tenere conto delle caratteristiche religiose, etniche e linguistiche delle popolazioni. Il che, bisogna riconoscerlo, sarebbe stato impossibile, tanta è la dispersione e tante sono le commistioni sul territorio tra gruppi di diverse peculiarità e tradizioni. Il processo indipendentistico ha allora condotto verso l’aggregazione di comunità differenziate sotto un modello di Stato centralistico di tipo europeo, lontano dall’impostazione di autonomia tribale e di comando carismatico dei capi locali che aveva caratterizzato la storia dell’intera area. In mancanza di valori unificanti, il risultato è stato il carente riconoscimento dell’autorità statale, che ha portato via via alla disgregazione delle nazioni, così come per esempio stiamo osservando oggi nelle crisi politiche che interessano la Repubblica Centrafricana, la Nigeria, il Sudan o la Somalia. E sì che proprio quest’ultima terra vanta una unità etnica e linguistica che, tuttavia, non ha impedito il disfacimento della struttura statale e dell’amministrazione pubblica.

L’instabilità dei Paesi dell’area è testimoniata proprio dai numerosi colpi di stato succedutisi dal 1963: 4 in Niger, 3 in Tchad, 5 nella Repubblica Centrafricana, 3 in Congo-Brazzaville, 1 in Congo-Kinshasa, 6 in Nigeria, 3 in Sudan, 1 in Somalia, 3 in Etiopia, 1 in Guinea Equatoriale, 3 in Uganda. Quasi la metà riguardano ex-colonie francesi.

Oggi il quadro dei vertici istituzionali che detengono la gestione politica è molto variegato in termini di credo religioso e di area politica di appartenenza: su 19 Capi di Stato o di Governo, 11 sono cristiani (secondo le confessioni cattolica, anglicana, pentecostale monoteista, ortodossa eritrea) e 8 musulmani, essendo questi ultimi distribuiti generalmente nel Sahel e nel Corno d’Africa; per quanto riguarda la tendenza delle formazioni politiche al potere, la metà è riconducibile alla classica distinzione dei partiti europei (conservatori, socialisti, social-democratici), le altre si dividono tra nazionaliste, islamiste, pan-africaniste, indipendenti e una addirittura marxista-leninista. I 3 Paesi condotti da formazioni nazionaliste (Sud Sudan, Eritrea e Uganda) hanno a capo leader cristiani e in Eritrea il partito di governo è l’unico riconosciuto legale; l’Etiopia, che ha un Primo Ministro cristiano, è condotta da una coalizione marxista-leninista, di cui il premier è il leader.

Dunque, il panorama politico è variegato e sono presenti varie esperienze religiose, di gestione e di governo. Tuttavia, le cause del fallimento dello schema nazionale in Africa Centrale sono tutte politiche e vanno ricercate per lo meno nella conduzione di alcune situazioni determinanti da parte di potenze straniere ex-coloniali e non solo:

  • il controllo delle risorse energetiche;
  • l’influenza sugli assetti interni e sulla politica estera;
  • la selezione dei vertici statali e della classe politica, l’una e l’altra imposti dagli interessi delle precedenti gestioni coloniali attraverso interventi militari o sostegni politici più o meno leciti.

 La gestione politico-economica esogena

Soprattutto la gestione delle risorse petrolifere dà un quadro delle influenze straniere, per lo meno sugli Stati che godono della presenza di giacimenti rilevanti. Per esempio, in Tchad l’intera produzione è divisa tra le statunitensi Exxon Mobil (40%) e Chevron Texaco (25%) e la malese Petronas (35%); in Gabon la francese Total, l’anglo-olandese Shell e l’anglo-francese Perenco assieme raggiungono l’80% della produzione totale nazionale; sempre la Total detiene una quota del 70% sia in Camerun sia in Congo-Brazzaville; in Nigeria la Shell (in joint venture con la Nigerian National Petroleum Corporation) raggiunge il 50%, ma interessi considerevoli sono operati anche da Exxon Mobil, Chevron Texaco, Total e l’italiana ENI.

Il settore petrolifero non è comunque un caso isolato, perché il quadro non cambia con le risorse minerarie di cui l’area è ricca, come l’uranio del Niger, il coltan del Congo-Kinshasa o le altre materie prime di rilevante valore economico (oro, diamanti, cobalto, cromo, bauxite e così via).

In questo contesto è importante il ruolo della Cina, che, priva del fardello di un passato coloniale, fonda la propria politica africana sugli investimenti e sull’aiuto allo sviluppo locale, piuttosto che basarsi su una politica di interventi militari di stile francese. Così, oggi il colosso asiatico investe soprattutto in Sudan, Etiopia e Nigeria (nelle cui attività lavorano quasi 100 mila cinesi) e si accaparra il 15% delle esportazioni africane (a fronte del 17% degli USA), provenienti soprattutto da Nigeria, Sudan, Congo-Kinshasa, Guinea Equatoriale, oltre che dall’Angola.

Gli USA sono interessate ai Paesi del Sahel e del Golfo di Guinea per motivi petroliferi e al Sud Sudan e al Somaliland anche per la difesa delle rotte navali del Mar Rosso. A livello commerciale agiscono anche attraverso l’African Growth and Opportunity Act (AGOA) del 2000. Anche la Russia e l’India sono presenti nell’area: la prima soprattutto in Nigeria con la Rusal, la più grande società del mondo nel campo dell’alluminio; la seconda, con interessi derivati in Tchad e Guinea Equatoriale, visto che la sua diplomazia economica africana si esplica in Africa Occidentale attraverso la Techno-Economic Approach for Africa–India Movement (TEAM-9).

L’influenza sulla politica estera e interna e la gestione militare delle crisi

Gli Stati francofoni e l’eredità politica della Francia

L’area francofona dell’Africa Centrale si estende sulla sua metà occidentale, con l’esclusione della Nigeria e con l’aggiunta di Djibouti. La Francia detiene i vantaggi e anche le responsabilità storiche derivanti dalla sua posizione di dominio nell’area: infatti gode di legami privilegiati con molti Stati dovuti alla francofonia, agli accordi stipulati con loro in materia di cooperazione militare, alla forte presenza economica sul territorio e all’influenza non solo economica esplicata attraverso l’attività della propria multinazionale attiva nel campo energetico. Pesa sul suo operato l’eredità della Françafrique, cioè della politica neo-coloniale messa in atto dopo la stagione delle indipendenze, per mantenere la sua influenza sui Paesi prima appartenenti al suo impero coloniale attraverso relazioni politiche, economiche e militari non sempre trasparenti e presumibilmente parallele rispetto ai governi in carica. Restano, ad esempio, le ombre sul sostegno in passato alle dittature militari in Tchad, Camerun e Congo-Brazzaville e quelle sulle reali motivazioni dei frequenti interventi militari (anche odierni) giustificati da ragioni umanitarie o di prevenzione dei conflitti. Molte sono le voci, invece, che hanno adombrato relazioni clientelari o costituzione di reti finalizzate al finanziamento dei partiti politici francesi.

Inoltre, un ruolo preponderante nel rafforzamento dei rapporti con la Francia sono ritenuti avere i legami massonici tra alcuni uomini politici influenti, segnatamente i Presidenti Denis Sassou Nguesso, Idriss Déby Itno e Ali Bongo Ondimba, rispettivamente Gran Maestri delle Gran Logge di Congo, Tchad e Gabon; l’ex Presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé, iniziato proprio da Nguesso; probabilmente (ma “in sonno”) anche Paul Barthélemy Biya’a, Presidente del Camerun. Tuttavia, questo non ha nemmeno impedito dissapori tra le rispettive nazioni, come testimonia la mancata solidarietà a Bozizé, quando questi è stato rovesciato l’anno scorso.

Central African RepublicLa Repubblica Centrafricana rappresenta uno degli esempi più evidenti delle conseguenze di questa politica. Dal 15 agosto scorso ha subito la secessione del territorio centro-settentrionale di Dar al-Kuti da parte dei ribelli della coalizione Séléka. Ma in precedenza, a partire dall’indipendenza del 1960, ha subito numerosi colpi di stato: quelli reciproci dei progressisti cattolici col. Jean-Bedel Bokassa nel 1966 e di suo cugino David Dacko nel 1979, entrambi appoggiati dalla Francia; del cattolico gen. André-Dieudonné Kolingba nel 1981; del cristiano celeste gen. François Bozizé Yangouvonda nel 2003, appoggiato dal Tchad; del musulmano Michel Djotodia Am-Nondokro nel 2013. Il solo Ange-Félix Patassé, socialista e cattolico, è giunto al potere a seguito di elezione nel 1993, ma dopo essere stato implicato nel tentato colpo di stato contro Kolingba del 1982. A questa instabilità istituzionale si aggiungono fattori destabilizzanti come i contrasti etnico-religiosi interni, il debole controllo delle frontiere, la presenza dell’Esercito di Resistenza del Signore (di provenienza ugandese), l’importazione delle guerriglie da Sud Sudan, Darfur, Tchad e Congo-Kinshasa, la conseguente presenza di truppe di tutte le nazioni sopra citate, oltre a quelle francesi (che vi detengono delle basi) e statunitensi (che combattono l’Esercito di Resistenza del Signore); senza contare la possibile infiltrazione di guerriglieri Shabaab dalla Somalia e di Boko Haram dalla Nigeria.

Gli Stati anglofoni e l’eredità politica della Gran Bretagna

Per area anglofona dell’Africa Centrale intendiamo la Nigeria (l’unico Paese in cui l’Inglese è ancora la lingua principale), due Stati dei Grandi Laghi (l’Uganda e il Kenia) e alcuni Paesi dell’Africa nord-orientale (il Sudan, il Sud Sudan, l’Eritrea e il Somaliland). Malgrado la lunga presenza coloniale (tranne che in Eritrea), bisogna dire che la Gran Bretagna non ha oggi grandi interessi strategici in quest’area, ad esclusione di quelli petroliferi in Nigeria e Gabon.

Proprio in due Stati produttori di petrolio, Nigeria e Sud Sudan, si concentrano alcuni dei maggiori problemi di stabilità interna. Il Sud Sudan, dopo la secessione dal Sudan nel 2011, sta registrando rivalità tribali sempre più profonde, con l’emergere di nuovi leader ribelli nei diversi Stati interni e una crescente militarizzazione della crisi. Specialmente l’ex Vice Presidente Riek Machar, originario della tribù Nuer, sta portando i maggiori attacchi al Presidente Salva Kiir Mayardit, un Dinka, il che evidenzia una lotta di potere in seno al partito conservatore di governo che ha condotto all’indipendenza e che non riesce a trasformare in azione politica le premesse costituite quando era movimento di guerriglia. Permane lo spettro dell’ingerenza dell’esercito ugandese, esplicitamente invitato dal governo di Kiir ad intervenire.

Fulani womanLa Nigeria fu creata dalle autorità coloniali britanniche nel 1914 dalla fusione della regione settentrionale (abitata da gruppi etnici Hausa e Fulani, prevalentemente musulmani e generalmente più omogenei tra loro) con quella meridionale (in maggioranza Yoruba e Igbo cristiani e animisti, ma solitamente meno affini anche dal punto di vista linguistico e di aggregazione politica). Da questo contesto nasce una maggiore opposizione ai Britannici e al mondo occidentale in generale manifestata dalle popolazioni del nord, dovuta anche all’atteggiamento dell’élite Hausa, la quale è stata in passato strumentalizzata dalla potenza coloniale per assoggettare la popolazione locale. La Nigeria è oggi afflitta da molti problemi: una corruzione endemica, la questione della spartizione delle ricchezze petrolifere, una sanguinosa insurrezione islamista e antiche controversie etniche, settarie e religiose. Dal 1° Gennaio 2014, con la scadenza del trattato che 100 anni fa ha sigillato il ricongiungimento dei Protettorati del Nord e del Sud, una coalizione di diversi gruppi etnici, sotto l’egida del New Nigeria Movement (NNM), chiede una ristrutturazione del Paese. 

 Le iniziative USA

Due nuove iniziative USA coinvolgono l’Africa Centrale:

  • Security Governance Initiative for Africa (SGI), che è volta a migliorare la sicurezza interna e degli investimenti esteri di alcune nazioni africane e che si estende anche a Niger, Nigeria e Kenia;
  • African Peacekeeping Rapid Response Partnership (A-PREP), intesa a migliorare la capacità militare di intervento in favore della pace e che si estende anche a Etiopia e Uganda.

Entrambe, presentate come azioni finalizzate alla protezione dei diritti umani, sembrano avere, invece, scopi geo-politici: da un lato, rafforzare il controllo economico dell’area in competizione con la Francia e la Cina, visto che, nelle intenzioni di Washington, il target delle esportazioni dall’Africa con destinazione USA dovrà raggiungere il 25% nel 2020; dall’altro, quello di contrapporsi ai gruppi islamisti di al-Qāʿida nel Maghreb Islamico, Hizbul Shabaab e Boko Haram; e ancora quello di rafforzare alcuni sistemi politici attualmente dominanti, tra cui figurano regimi repressivi, non certo campioni dei diritti umani (vedi Etiopia e Nigeria). Sicuramente, le due iniziative non aiutano le missioni di pace che l’Unione Africana gestisce attraverso l’ONU, anzi sembrano essere prese in sostituzione o in contrapposizione ad esse e sembrano ribadire la nuova politica africana avviata da George W. Bush con l’U.S. Africa Command e una nuova stagione di interventi militari. Ma cosa non si fa per i diritti umani!

Il ruolo storico dell’Islam

In Africa l’Islam, come è nella sua natura, ha spesso rappresentato la risposta a istanze sociali, prime fra tutte il compattamento delle comunità e il superamento della schiavitù e delle caste sociali. Il fallimento delle ideologie laiche, progressiste e nazionaliste e dei relativi movimenti di protesta ha esaltato il ruolo sociale delle formazioni islamiste, sfociando in qualche caso nei fenomeni jihādisti che tanto preoccupano un distratto Occidente. Raramente i Paesi occidentali si sono, per contro, interessati alle cause delle manifestazioni di disagio contrapposte all’assenza dello Stato e alla corruzione, tutte motivazioni che hanno gettato le basi per l’invocazione della Sharī’a come rimedio giuridico di ultima istanza: ne è testimonianza il favore con cui gran parte delle popolazioni locali del Mali, durante la stagione dell’indipendenza dell’Azawad, ha accolto i miliziani jihādisti di ʾAnṣār ad-Dīn o quelli dei pan-Islamisti del Movimento per l’Unità e il Jihād in Africa Occidentale (MUJAO). Questo non significa che tale sia la predisposizione dell’Islam saheliano e subsahariano, che, anzi, si è sempre abbeverato al misticismo delle Confraternite sufi. Significa, invece, che alcune tendenze massimaliste di derivazione medio-orientale (specificamente wahhābita e salafita) si sono sovrapposte all’inclinazione essenzialmente spiritualistica del comportamento africano di osservanza malikita, anche se alcune ṭuruq erano ricorse al jihād come forma di lotta religiosa contro il colonialismo (vedi gli esempi dell’Almamy Amadou Sheikou Tall dei Toucouleur e il Faama Samory Touré di Ouassoulou); e questo non implica, in ogni caso, che tutti i salafiti dell’area abbiano abbracciato forme violente di lotta.

Certo, ignorare che esista un sentimento diffuso di malcontento verso un modello di cultura occidentale imposto dal neo-colonialismo (specialmente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso), comporta un errore di analisi sociologica e politica sul montante interesse verso il movimentismo religioso, che ha come radici la critica all’uniformità e massificazione della società in atto e che ha come fine una controproposta islamica più vicina alla sensibilità delle comunità. Diversa è la questione dei metodi utilizzati per affermare tali proposte e in questo senso è scontata la condanna della violenza come metodologia di lotta politica.

La resistenza islamista in Nigeria

L’esempio più chiaro è fornito dalla condizione che vive la Nigeria nei confronti dell’estremismo religioso. Sul piano storico, i Britannici non occuparono un territorio vuoto, senza istituzioni e senza legge. Nel nord ereditarono il Califfato di Sokoto, che, dopo la fondazione da parte di Sheikou Usman dan Fodio nel 1803, trent’anni dopo sarebbe diventata una vera e propria teocrazia che avrebbe regnato per 70 anni anche su territori degli attuali Niger e Camerun, prima di essere assorbito nel Protettorato britannico e trattato come un qualunque emirato dello Stato. Da qui un richiamo da parte di alcuni alla legittimità storica di un’istituzione islamica, richiamo contrapposto all’artificiosità di uno Stato laico di derivazione coloniale che contrasta con l’impostazione degli insegnamenti religiosi tradizionali. È questa la scelta compiuta già nel 1905-06 dal Mahdismo rivoluzionario, quando sotto attacco non furono solo le potenze coloniali britannica e francese, ma anche l’aristocrazia e il clero collaborazionista: Britannici e Francesi risposero con brutali repressioni.

Tra le Confraternite sufi, la Qādiriyya ha avuto in Nigeria un ruolo privilegiato, perché scelta dal potere coloniale come caposaldo dell’Amministrazione locale e come testa di ponte verso la popolazione autoctona, soprattutto in ordine al tipo di educazione da introdurre e all’utilizzazione della lingua inglese. La Tijāniyya, invece, come il Mahdismo, ha fatto della difesa dell’educazione islamica una propria bandiera, argomento che ritorna d’attualità ai nostri giorni, come riporteremo più avanti. Ma prima è necessario accennare a due movimenti di protesta anti-occidentale che si sono sviluppati nella seconda metà del ‘900:

  • quello dei Talakawas (cioè dei popolani), iniziato nel nord dal socialista Aminu Kano alla fine degli anni ’40, sulla spinta dell’insoddisfazione popolare verso la gestione britannica realizzata attraverso l’élite dei capi tribali locali. La protesta sarebbe stata poi incanalata verso la formazione della Northern Elements Progressive Union (NEPU), che è stato il maggiore partito di opposizione nel periodo dell’auto-governo durante gli anni ’50 e chiamò alla “lotta di classe contro la classe dominante”;
  • quello capeggiato dal predicatore hausa Maitatsine (Colui che maledice, pseudonimo di Moḥammed Marwa), il quale, proclamandosi Mujaddid (Rinnovatore religioso) e più tardi addirittura Profeta, lanciò a partire dagli anni ’40 una campagna pauperista e anti-modernista, che gli costò più volte l’arresto da parte delle autorità britanniche e anche l’esilio. Questo movimento sarebbe poi stato attivo per molti decenni, anche dopo la sua morte avvenuta nel 1980.

Kanuri womenAvendo alle spalle questi esempi, nel 2002 a Maiduguri, capitale dello Stato del Borno, Moḥammed Yūsuf fonda Boko Haram, volgarizzazione mediatica del movimento Jamāʿat Ahl as-Sunna li-d-Daʿwa wa-l-Jihād (Gruppo della Gente della Sunna per la Predicazione e il Jihād), gruppo salafita che ha lo scopo di contrastare l’occidentalizzazione della Nigeria, introducendo la Sharī’a, e la finalità politica di stabilire uno Stato Islamico nel nord del Paese. Secondo alcuni analisti, le ragioni del suo radicamento nel Borno (particolarmente nell’etnia Kanuri) affonderebbero non tanto nella battaglia contro il modello di educazione introdotto dai Britannici (l’educazione occidentale è peccato), quanto nel desiderio di giustizia sociale e di lotta alla corruzione: quindi, ragioni politiche, sfociate in rivendicazioni che dal 2009 (anno dell’assassinio del fondatore) hanno trovato nell’Islamismo politico radicalizzato la forma di lotta ritenuta più efficace e visibile. Tuttavia, tanto Amīr al-mu’minīn Muḥammadu Sa’ad Abubakar IV, il Ṣūfī qādir Sultano di Sokoto, quanto la Coalition of Muslim Clerics in Nigeria, hanno pubblicamente condannato le azioni del gruppo. Una derivazione scissionista di Boko Haram rappresenta, invece, Jamāʿatu Anṣāril Muslimīna fī Bilādis Sūdān (Gruppo per la Protezione dei Musulmani in Africa Nera), in breve Anṣāru, movimento jihādista salafita nato nel 2012.

Le ṭuruq sufi in Africa orientale

Questa carrellata attraverso l’Islamismo sub-sahariano non può concludersi senza aver almeno accennato alla presenza proficua del Sufismo in Africa Orientale. Numerose sono le Confraternite insediate sul territorio e fra queste dobbiamo segnalare le seguenti:

  • la Qādiriyya, che segnò la prima presenza sufi nella regione, quando Sharīf Abū Bakr al-ʿAdanī ibn ʿAbdullāh al-ʿAydarūs la importò nella seconda metà del XV secolo dal natio Yemen a Harar, nell’est dell’Etiopia. Da qui si diffuse poi nel resto dell’Etiopia (specialmente nell’attuale Regione dei Somali), in Sudan e in Somalia (facendo perno sulla città di Hargeysa, la “piccola Harar” attualmente capitale del Somaliland);
  • la Sammāniyya, diffusa in Sudan ed Etiopia;
  • la Tijāniyya, nata a Fès, in Marocco, ma influente, oltre che in Africa Occidentale e nel nord della Nigeria, anche in Sudan;
  • la Aḥmadiyya-Idrīsiyya, attraverso le sue derivazioni Sanūsiyya, Mīrġanīyya, Khatmiyya, Rashīdiyya e Ṣāliḥiyya. Nel XIX secolo i Sanūsī si espansero presto dalla Cirenaica verso la regione saheliana degli attuali Tchad e Sudan; la famiglia meccana dei Mīrġani fu invece responsabile della fondazione e introduzione della Mīrġanīyya e della Khatmiyya nell’area e Sīdī Muḥammad al-’Uthmān Mīrġanī al-Khatim sviluppò la seconda specialmente in Sudan, Eritrea, Etiopia e Somalia; in quest’ultima operarono il sudanese Ibrāhīm ar-Rashīd bin Ṣāliḥ ad-Dunqulāwī ash-Shāʾiqī ad-Duwayhī e soprattutto suo figlio Muḥammad.
  • la Burhāniyya, nata nel XIII secolo e rinnovata nel XX dal sudanese Shaykh Mawlānā Moḥamed Osman `Abdu’l-Burhāni.

Nei confronti delle autorità coloniali, alcune di queste ṭuruq si dimostrarono moderate e comprensive, come è il caso dei Mīrġani in Sudan e in generale la Qādiriyya. La più combattiva si manifestò la Ṣāliḥiyya tramite l’azione del religioso Sayyīd Muḥammad `Abd Allāh al-Ḥasan, il quale nel 1896 stabilì lo Stato dei Dervisci nel cuore del Corno d’Africa e per un ventennio, durante la Guerra Anglo-Somala, tenne in scacco le forze imperiali della Gran Bretagna e dei suoi alleati italiani ed etiopi, prima di cadere nel 1920, cioè dopo la sconfitta del Sultanato Ottomano, che lo aveva riconosciuto.

Forse le attuali vicende somale e quelle dell’intera regione (vedi anche Sud Sudan ed Eritrea) si trascinano dietro ragioni mal comprese nell’ambito della gestione di queste eredità coloniali: l’ennesimo strafalcione politico originato nel primo dopoguerra dai vincitori. Esattamente come in Medio Oriente!

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