IWA MONTHLY FOCUS

LA TURCHIA DI ERDOĞAN VERSO L’ERA POST-KEMALISTA

Il valore aggiunto sui piani dell’attendibilità dei principi islamici e dell’affidabilità delle alleanze

di Glauco D’Agostino

La Turchia si riprende il suo ruolo, quello che gli spetta sul piano storico e politico e che le fu negato un secolo fa.

Partiamo da tre avvenimenti dell’attualità per tentare di capire cosa questo significhi e quali siano gli elementi rilevanti da tenere in considerazione:

  • il 9 giugno scorso l’allora Presidente turco Abdullah Gül e il Presidente iraniano Ḥasan Ruhani si incontrano ad Ankara (vedi foto a sinistra) e si impegnano a combattere insieme l’estremismo e il terrorismo, definendo i termini di una cooperazione regionale turco-iraniana per fermare le atrocità in Medio Oriente;
  • il 22 luglio a Istanbul Meḥmet Görmez, dal 2010 Presidente della Diyanet İşleri Başkanlığı (la Presidenza per gli Affari Religiosi di Turchia e Cipro del Nord), a conclusione di una conferenza internazionale di studiosi sciiti e sunniti, dichiara che l’istituzione del Califfato da parte dei militanti dello Stato Islamico manca di legittimità: Tali dichiarazioni non hanno alcuna legittimità, dice Görmez in riferimento all’annuncio del 6 Ramaḍān 1435 dell’Egira (4 luglio 2014) da parte di Shaykh Abū Bakr al-Ḥusaynī al-Qurayshī al-Baghdādī. E aggiunge: Da quando il Califfato è stato abolito … ci sono movimenti che pensano di poter riunire il mondo musulmano ripristinando il Califfato, ma non hanno nulla a che fare con la realtà, sia dal punto di vista politico che giuridico. Le parole di Görmez non costituiscono un’opinione come tante altre: è il successore della figura di Shaykh al-Islām, cioè del muftī e consigliere spirituale e giuridico-religioso dei Sultani che, dalla sua istituzionalizzazione nel 1480 da parte di Meḥmet II fino all’abolizione del Califfato nel 1924, aveva anche il compito di confermare il Sultano-Califfo nella sua carica;
  • il 10 agosto scorso il Primo Ministro turco uscente Recep Tayyip Erdoğan, candidato del partito islamico di governo Giustizia e Sviluppo, vince le prime elezioni presidenziali dirette della Turchia, battendo il candidato comune del kemalista Partito Popolare Repubblicano (CHP), di centro-sinistra, e del conservatore Partito del Movimento Nazionalista (MHP), di estrema destra.

Queste tre circostanze appena citate fanno da trailer ad altrettanti argomenti che potrebbero caratterizzare la politica di Ankara nel futuro prossimo, alla luce della profondità della propria storia, mai da sottovalutare:

  • la nuova politica estera della Turchia del Presidente Erdoğan;
  • la spinta culturale ad una sorta di richiesta pan-Islamica;
  • la rifondazione di una Turchia post-kemalista, basata sui valori religiosi della sua popolazione, artificialmente sacrificati per 100 anni.

La prima considerazione è che la Turchia gode (o soffre, dipende dai punti di vista) di una posizione unica nel mondo islamico, in quanto appartenente ad un’alleanza militare come la NATO, che la vincola nelle sue prese di posizione e nelle sue strategie di politica estera: questo le ha consentito, ben prima della sua adesione formale alla NATO del 1951, di evitare da un lato la stretta che il comunismo sovietico all’epoca poneva mediante l’arma delle agitazioni delle forze politiche filo-comuniste; dall’altra l’instabilità dovuta all’attacco delle frange estremiste contro la dissennata politica di forzata secolarizzazione imposta dopo la dissoluzione del Califfato. Dunque, una Turchia con popolazione dai connotati religiosi assolutamente omogenei e pur tuttavia oggi ponte tra due civiltà contigue, quella europea e quella araba, snodo di comunicazione anche culturale tra Est ed Ovest, proprio in virtù della sua posizione baricentrica, ma anche e soprattutto per la sua peculiarità di Paese medio-orientale musulmano non arabo aperto all’ascolto verso le realtà esterne.

Ora, potrebbe essere proprio questo il valore aggiunto della nuova Turchia, una volta liberatasi dalle catene ideologiche che l’hanno tenuta soggiogata nelle spire di un meccanismo neo-coloniale vecchie di un secolo: essere riconosciuta dall’Occidente per la sua affidabilità sul piano delle alleanze, ma anche e soprattutto dal mondo arabo e islamico per la sua ritrovata attendibilità sul piano dei valori islamici di riferimento. In altri termini, quello che la vecchia Turchia non poteva rappresentare per il Medio Oriente, in quanto dominata dalla volontà kemalista di emulare acriticamente i costumi e le istituzioni “occidentali”, oggi la nuova Turchia può permettersi di sognare, volgendo lo sguardo a sud e ad est e proponendosi come potenza regionale di riferimento assieme all’Iran: così può forse leggersi l’incontro di Ankara tra i Presidenti Gül e Ruhani, certamente confermato nelle sue aspirazioni anche dall’ex Primo Ministro e neo-Presidente Erdoğan.

Il pericolo del neo-Ottomanismo, certo: per lo meno così parte della stampa internazionale guarda alle ambizioni della Turchia, interpretandole come tendenze espansionistiche. Naturalmente, è pura propaganda! E per due ordini di motivi:

1)      Proprio il Presidente Görmez, non a caso richiamato all’inizio, ha specificato l’inopportunità che i Musulmani siano aggregati sotto la sovranità di un Califfo, immaginando, invece, blocchi politici come l’Unione Europea: una dichiarazione che non manca di sollevare polemiche da parte degli Islamisti più convinti e tradizionali, ma il cui carattere prudenziale e in qualche maniera rinunciatario non lascia margini di speculazione politica a quanti ancora accusano Ankara di revanscismo;

2)      Il tentativo di far passare l’idea che il solo richiamo al Califfato Ottomano sia sinonimo di oscurantismo è quanto meno fuori luogo da parte dei “giannizzeri” del culto radical-illuministico, visti i risultati disastrosi che ancora a 100 anni di distanza le popolazioni medio-orientali e nord-africane stanno sperimentando sulla propria pelle a seguito delle squilibrate politiche adottate dai Paesi occidentali dopo lo smembramento del Sultanato, le pratiche spartitorie e i deliri nazionalistici istigati tra le popolazioni locali.

Non è un mistero che il Ministro degli Esteri turco Aḥmet Davutoğlu, in carica dal 2009, abbia criticato gli effetti dell’accordo segreto Sykes-Picot, il patto del 1916 che divideva il Medio Oriente tra le potenze coloniali. Quell’accordo, dopo il tortuoso percorso di un secolo, sta lì a perpetuare un dominio coloniale infinito e che qualche analista o organo di stampa vorrebbe considerare “pericoloso” mettere in dubbio. A qualcuno è sfuggito che quegli equilibri non garantiscono più la tanto ricercata stabilità: che di quelle entità statuali nate dalla Grande Guerra ben poche mantengono o controllano i confini, con l’Iraq e la Siria erose dallo Stato Islamico, soprattutto con lo scempio che Israele ha fatto dei territori occupati (una volta giordani, poi palestinesi), comprese le alture siriane del Golan; per non aprire il triste capitolo di alcuni Paesi nord-africani ex ottomani, oggi in balìa di guerriglie e dittatori “militar-democratici”.

Dunque, se Paesi forti e stabilizzati come la Turchia e l’Iran cercano il proprio spazio di guida e rappresentanza del mondo islamico medio-orientale, non vi è giustificazione per ritenerli neo-imperiali, dopo che gli imperialismi mascherati occidentali hanno fatto e continuano a fare rimpiangere la pluri-secolare tollerante cultura multi-etnica e multi-religiosa offerta dal Califfato. Di più, seguendo le concezioni dell’ex Presidente Halil Turgut Özal (un nazionalista, non certo un islamista), è assolutamente legittimo che la Turchia si proponga come pacifico riferimento culturale e politico anche per aree turcofone dei Balcani, del Caucaso e dell’Asia Centrale, dove pur sussistono altre influenze che rischiano di snaturarne i connotati culturali. Altrimenti che senso avrebbero le aperture anche politiche a modelli importati di partecipazione popolare? Non credo che questi processi possano essere semplicemente dettati a senso unico, pena il rigetto.

Il rinnovamento turco non è uno slogan. Oggi la Turchia ha consolidato la strada per presentarsi come un Paese normale, non più appesantito dal fardello ideologico kemalista e anti-islamico. L’artefice è l’AKP di Erdoğan, che, dando corpo ai valori islamici, consente libertà di religione contrapposta alla politica di emancipazione da tutte le religioni proposta per decenni dal secolarismo che guarda ad ovest. Ne è prova la maggiore attenzione riservata negli ultimi anni ai diritti dei Cristiani (e dei Greci Ortodossi in particolare), maggiormente avversati, invece, dai partiti laici di destra e di sinistra, i quali temono l’apertura verso altre religioni come prodromo di maggiori richieste da parte degli Islamici. E anche i Curdi, come minoranza etnica, hanno apprezzato dal 2009 maggiore autonomia e accettazione sociale rispetto ai tempi (anche recenti) in cui i governi erano custodi della prevalenza etnica turca introdotta da Atatürk. E sì che proprio il “Padre dei Turchi”, abolendo nel 1927 la Sharī’a con tutte le sue garanzie previste per le minoranze, si era ispirato al Codice Civile svizzero del 1907!

È anche chiaro che rinnovamento turco non significa rinunciare alla modernità e alle sinergie create in tutti i campi con il mondo europeo e occidentale, proprio nell’ottica del ponte culturale citato prima. Ma, ad esempio, è nell’interesse della Turchia respingere il ricatto politico dell’Unione Europea nei suoi confronti quando, una volta lanciatole l’invito a farne parte, si mostra titubante nella sua piena accettazione con il pretesto che Ankara non dimostra di raggiungere i requisiti necessari. Forse la popolazione turca non è poi così affascinata da questo matrimonio d’interesse e dopo tutto la sua prima comunità internazionale di appartenenza è la Umma islamica. E non è affatto detto che la modernità non possa essere perseguita e accettata, secondo le intuizioni di Abū ‘l-Aʿlā Mawdūdī, seguendo le vie dell’Islam, reinterpretando e riorientando fonti tradizionali e confessioni dottrinarie.

Certo, il movimento islamico non è un corpo unico in Turchia, malgrado la netta prevalenza sunnita della popolazione, ed è difficile che tutte le sue componenti seguano un percorso unitario, articolate come sono in confessioni sunnite, sciite ed eterodosse, in ṭuruq (confraternite sufi), movimenti e partiti. Di seguito si citano alcune delle componenti religiose (alcune influenti, altre molto meno) presenti nel Paese:

Tra i gruppi sciiti:

  • i Nusayriti, nati nella prima metà del X secolo con connotati esoterici ed iniziatici in gruppi chiusi, sono oggi accettati nella famiglia duodecimana e quelli turchi condividono la stessa fede con gli Alawiti siriani;
  • gli Alevi, sincretisti adoratori di ‘Alī ibn Abū Ṭālib, sono nati nel X secolo in Persia e sono storicamente presenti prevalentemente nella Turchia orientale tra le etnie turca, araba e curda con caratteristiche dottrinali simili a quelle dell’Ordine sufi Bektaşi.

Tra le ṭuruq sunnite:

  • la Rifa’iyya (dei Dervisci urlanti), risalente al XII secolo, basata sull’estasi mistica con mortificazioni corporali e diffusa anche in tutto il Medio Oriente arabo, Balcani e India;
  • la Qādiriyya, nata nello stesso secolo, conservatrice e gerarchica ed anche la più elitaria tra le Confraternite, diffusa anche in Asia centro-meridionale, Turkestan, Balcani, Cecenia e Africa;
  • la Mevleviyyè (dei Dervisci rotanti) fondata nel XIII secolo nella Città Santa di Konya ad opera del Mawlānā Jalaladdun Rûmî, discepolo del Santo Ṣūfī ibn ‘Arabī;
  • la Khalwatiyya (pure appartenente all’Ordine dei Dervisci), nata nel XIV secolo in Turchia e cui aderirono diversi Sultani Ottomani, tra cui Bāyazīd II il Santo e suo nipote Solimano il Magnifico;
  • la Naqshbandiyya, fondata nel 1380 e oggi diffusa soprattutto in Siria, Afghanistan, Cecenia e Balcani;
  • la Süleymancılar, fondata nel XX secolo come espressione di un Islam puritano e tradizionalista.

Tra le ṭuruq sciite:

  • i Bektaşi, sorti nel XIII secolo, i quali nel secolo successivo formarono l’Ordine ufficiale dei Giannizzeri (la relativa immagine qui sotto è tratta da comgun.ru) all’interno delle strutture imperiali e oggi sono diffusi anche nei Balcani;
  • i Qizilbāš (le Teste Rosse), nati alla fine del XIII secolo in Anatolia e Kurdistan e che per alcuni studiosi potrebbero essere eredi della setta ismailita dei Nizariti.

Эпоха битв в рисунках. Часть 2. (25 фото)

Complesso anche il quadro dei partiti e movimenti politici minori di ispirazione islamica, tra cui si citano:

  • il Partito della Felicità (Saadet Partisi) dell’ex Primo Ministro (ora deceduto) Necmettin Erbakan, fondato nel 2001 a seguito dello scioglimento forzato del Partito della Virtù e che basa la sua politica sulla forza spirituale dell’Islam e sulla critica all’emulazione dei valori secolaristi introdotti in Turchia dall’Occidente;
  • il Partito per una Turchia Indipendente (Bağımsız Türkiye Partisi, BTP) del prof Haydar Baş, fondato nel 2001 con connotati nazionalisti e che si batte tra l’altro per i diritti degli Alevi e degli Sciiti;
  • il complesso dei partiti e movimenti islamisti curdi, di cui si è già parlato in altro articolo e per cui si rimanda al sito https://www.islamicworld.it/wp/il-puzzle-curdo-tra-nazionalismo-e-islamismo/;
  • il Jihād Islamico Turco, di orientamento fondamentalista;
  • Ḥizb ut-Tahrir (Partito della Liberazione), parte del movimento internazionale pan-Islamista, fuorilegge, ma attivo nel Paese.

Sicuramente la nuova prospettiva islamica della Turchia è nata 13 anni fa con la fondazione del Partito Giustizia e Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP) di Erdoğan. Ma sarebbe limitativo non riconoscere l’eredità lasciatagli dalle lotte contro il kemalismo da parte degli uomini e delle formazioni politiche islamiste, da cui deriva storicamente e politicamente. In particolare, a partire dal 1970, si ricordano:

  • il Partito dell’Ordine Nazionale (Millî Nizam Partisi, MNP) di Necmettin Erbakan, fondato nel 1970 e disciolto un anno e mezzo dopo per violazione della Costituzione nei suoi fondamenti laicisti;
  • il Partito di Salvezza Nazionale (Millî Selâmet Partisi, MSP), erede del precedente, fondato nel 1972 con un chiaro programma politico islamista, come difensore dei valori tradizionali e opposto al comunismo, alla massoneria e al sionismo. Nel 1974, entrando nel governo retto dal Partito Popolare Repubblicano di Mustafa Bülent Ecevit, di ispirazione social-democratica, rompe l’ostracismo del regime contro il movimento islamista, legittimando l’accettazione di una sua componente partitica nelle stanze del governo. Il partito è smantellato nel 1980 con il colpo di stato militare di Kenan Evren, benché la “Sintesi Turco-Islamica”, concepita dai nazionalisti negli anni ’70, fosse diventata la linea politica dei militari a vantaggio di una visione dell’Islam come forza unificante e moralizzatrice dell’intera Nazione;
  • il Partito del Benessere (Refah Partisi, RP), nato nel 1983 dalle ceneri dell’MSP e sempre con Erbakan tra i suoi fondatori e con l’attuale Presidente Erdoğan tra le figure di spicco. Tra il 1996 e il 1997 esprime il Primo Ministro turco proprio nella persona di Erbakan, prima che una poderosa campagna anti-islamista lo costringesse alle dimissioni. Nel 1998 è disciolto dalla Corte Costituzionale con le solite poco democratiche motivazioni;
  • il Partito della Virtù (Fazilet Partisi, FP), fondato nel 1998 da vari esponenti provenienti dal Partito Refah (tra cui il Presidente Abdullah Gül) e sciolto con le stesse modalità nel 2001. Una sua deputata, Merve Safa Kavakçı, è nota per avere provocatoriamente cercato di indossare il velo islamico durante la cerimonia di insediamento alla Grande Assemblea Nazionale, proprio per evidenziare la mancanza di libertà di scelta imposta dal regime laico.

Poi la svolta del 2002, quando Giustizia e Sviluppo, sotto la guida di Erdoğan e dopo poco più di un anno dalla sua fondazione, alle elezioni parlamentari conquista due terzi dei seggi e inaugura la fortunata stagione di governo che, attraverso tre successive conferme elettorali sempre in crescendo di consensi, ancora continua ai giorni nostri con la conquista della Presidenza della Repubblica.

Di certo, non ha visto lontano chi, come il Center on the United States and Europe at Brookings, ancora a gennaio scorso scriveva tramite la penna di Ali Çarkoğlu: …nearly eleven years after it came to power, many have begun to argue, likely prematurely, that the AKP may soon see its supremacy come to an end.

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