IWA MONTHLY FOCUS

SAHEL A SOVRANITÀ LIMITATA: IL GIOCO AMBIGUO DELLA (DE)STABILIZZAZIONE

di Glauco D’Agostino

Mali, Djenné (foto dell’autore)

A poche settimane da quando il Presidente Emmanuel Macron, nel suo discorso di apertura della Presidenza francese al Consiglio dell’Unione Europea, ha invocato una “nuova alleanza con l’Africa”, Islamic World Analyzes propone l’analisi di Glauco D’Agostino sul Sahel, la cui versione in Inglese è stata già pubblicata per prima ad aprile dello scorso anno in Geopolitica. Revistă de Geografie Politică, Geopolitică şi Geostrategie, Anul XIX, nr. 87-88 (2 / 2021) GEOPOLITICĂ ŞI (IN)SECURITATE (II) CRIZA DE IDENTITATE. Da allora, molti sono gli avvenimenti che hanno modificato il quadro geo-politico ed istituzionale dei Paesi interessati, a cominciare dai colpi di stato in Mali, Guinea e Burkina Faso, all’uccisione del Presidente di lungo corso del Tchad Idriss Déby Itno, all’annuncio del Presidente Macron della fine dell’Operazione Barkhane per i primi mesi del 2022. Proprio la reminiscenza della situazione in Sahel meno di un anno fa contribuisce a mettere di fronte alle responsabilità Francia e Unione Europea nei confronti dell’Africa. Secondo il Presidente Macron, l’Europa ha “il dovere di proporre una nuova alleanza al continente africano” e “i destini delle due sponde del Mediterraneo sono collegati”. “Nei mesi a venire, dobbiamo fare un nuovo passo, reinventare una nuova alleanza con il continente africano, in primo luogo attraverso un nuovo accordo economico e finanziario con l’Africa che deve basarsi su quanto abbiamo costruito nel mese di maggio scorso” ha detto. Gli intendimenti dell’ineffabile Presidente sembrano cambiati rispetto all’atteggiamento bellico mostrato negli anni precedenti. E noi gli crediamo. Purché le dichiarazioni non siano solo un paravento politico funzionale alla sua riconferma nelle elezioni presidenziali di aprile prossimo. E purché il giorno dopo il suo eventuale nuovo insediamento all’Eliseo non si ritorni alle poco lungimiranti logiche di occupazione del territorio saheliano, condivise dall’Unione Europea in nome della sempreverde lotta al terrorismo.

Sommario:

Mappa di Zenobia Ahmed da The Conversation

La strategia anti-terroristica prevalente in Africa Occidentale e Sahel si concentra sull’uso della forza militare, ma aggrava l’insicurezza regionale e dimostra i limiti della sua visione miope. Tutte le recenti elezioni nell’area hanno consentito valutazioni ottimistiche sul consolidamento democratico, nonostante il quadro economico-sociale di quei Paesi minacci la stabilità politico-istituzionale. L’obiettivo di eradicare e in prospettiva eliminare la povertà ha poco a che fare con la limitazione della sovranità nazionale. Le popolazioni locali, specie quelle lontane dai vantaggi della condivisione del potere, guardano alle rivolte (purtroppo anche quelle che utilizzano il terrorismo) come un’opportunità di riscatto. La repressione, intesa giustamente come arma contro il terrorismo, si ripercuote comunque sulla gente inerme che ne diventa la vera vittima. In alcune aree, gruppi jihādisti mantengono il controllo territoriale e giuridico-amministrativo attraverso una gestione basata sia sulla Sharī’a sia su tradizioni locali.

La Francia, ex potenza coloniale su gran parte dell’area, conduce operazioni anti-terrorismo congiunte con i Paesi del G5 Sahel, ma la stessa impostazione di marca “parigina” sembra far leva su pesanti operazioni militari non accompagnati da efficaci programmi di sviluppo. Parigi ha perso credibilità presso i Paesi dell’Africa francofona e soprattutto presso le loro comunità locali. in Mali, proteste anti-francesi erano scoppiate prima del colpo di stato di agosto 2020 e susseguenti all’intervento militare del 2013 contro i nazionalisti e gli islamisti che avevano dichiarato l’indipendenza dell’Azawād. Gli effetti di quell’imprevidente operazione stanno tuttora interessando anche Burkina Faso e Niger.

Marocco e Algeria, attaccati da forze terroristiche, puntano su metodologie che potrebbero mitigare le conseguenze della violenza e, nel tempo, rappresentare una diversa opzione rispetto alle azioni belliche. Altri Paesi dell’area non sono in condizioni di affermare quella reale indipendenza che le loro Costituzioni post-coloniali garantiscono. Una via per sottrarsi a queste influenze esterne, per lo meno sul piano economico, è fornita dai tentativi di cooperazione regionale guidata dai partner più strutturati e basata sull’integrazione delle economie. Le risposte devono riguardare il rafforzamento istituzionale centrale e periferico, il controllo governativo dei territori, la riforma della pubblica amministrazione, la fine della dilagante corruzione, i servizi alle comunità rurali, i diritti alla sanità e all’istruzione.

Parole-chiave: Sahel, Africa Occidentale, jihādismo, anti-terrorismo, Francia, G5 Sahel, Mali, stabilizzazione, destabilizzazione, sovranità nazionale, processi democratici, cooperazione regionale, programmi di sviluppo.

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Cause dei conflitti e strategie di contrasto

Il bacino del Fiume Niger (mappa derivata da Wizardist, 2010)

Mali, Mopti, Fiume Bani, il principale affluente del Fiume Niger (foto dell’autore)

Secondo il Global Terrorism Index 2020, il Burkina Faso “ha avuto il più grande aumento del terrorismo, dove i morti sono aumentati del 590% a 593”, ma Nigeria e Mali, tra i primi posti nella classifica, lo precedono in quanto a “attacchi terroristici negli ultimi cinque anni”.[1] E i rapporti dell’Ufficio Marittimo Internazionale (IMB) della Camera di Commercio Internazionale registrano nel Golfo di Guinea il 95% dei membri di equipaggio rapiti nel 2020 rispetto ai dati globali[2] e un aumento della pirateria e delle rapine a mano armata.[3] I dati segnalano la effettiva tendenza negativa nella sicurezza di molte zone della regione dell’Africa Occidentale e del Sahel, attualmente scosse da violenze preoccupanti. Ma dai comunicati ufficiali degli organismi internazionali sembra trasparire soddisfazione per i significativi progressi compiuti nella lotta al jihādismo.

Eventi violenti in Sahel (2005-2020) (da ACLED, Armed Conflict Event Data Project, 2020)

Dunque, sottolineatura del jihādismo (che a questo punto non si sa più in cosa si sostanzi) e sottovalutazione dei vari gruppi armati non-statali che si contendono il territorio per ragioni diverse, come controllo delle risorse, gestione delle frontiere, separatismo, prevalenza etnica.[4] Naturalmente, sullo sfondo quasi sempre si intravedono interessi statali extra-regionali volti allo sfruttamento delle ricchezze energetiche e minerarie di cui la zona è ricca (petrolio del Golfo e della Mauritania, uranio e oro del Niger, ecc.). Questi interessi fungono da catalizzatori per la formazione e l’ascesa di milizie armate territoriali coinvolte in ragione della contrapposizione tra i rispettivi patrocinatori. E tuttavia, anche le mai placate questioni etniche si risvegliano, oggi istigate dalla strumentalizzazione della lotta al terrorismo che tende a non distinguere le cause e, invece, a classificare i popoli tra buoni e cattivi. Questo atteggiamento semina odi e conflitti su base etniche e religiose, spesso dando vita ad alleanze eterogenee come quella tra i Peul del Mali e il Movimento per l’Unità e il Jihād in Africa Occidentale;[5] niente di nuovo rispetto agli scontri etnici del passato avvenuti nella Casamance senegalese o in Mauritania, sebbene in un contesto storico-politico diverso.

La strategia anti-terroristica prevalente degli establishment statali regionali e di quelli dei partner internazionali che li proteggono appare concentrarsi sull’uso della forza militare. Il modello è americano (ma in questo caso l’esecuzione non è solo dettata da Washington) ed è quello attuato in Vietnam, in Iraq, in Afghanistan, in Somalia, in Yemen e così via. Di conseguenza, si pensa, maggiore la forza d’urto in campo, minore il pericolo di destabilizzazione. Basta individuare un nemico da colpire. Diremmo che questa strategia applicata in tutta l’Africa Occidentale esplicita l’obiettivo di salvaguardare gli assetti politici e istituzionali creati con la de-colonizzazione ormai più di sessanta anni fa e mantenuti a furia di colpi di stato e di pseudo-democrazie, tanto per incontrare l’accettazione dei ben pensanti del “politicamente corretto”. Eppure, anche il quadro economico-sociale di quei Paesi minaccia la stabilità politico-istituzionale. Ma questa correlazione logica non sembra fare effetto né sulle opinioni pubbliche né su chi lucra sulla permanente destabilizzazione e aspetta di intervenire con la forza per stabilizzare momentaneamente.

La conseguenza è che, come il modello delle esperienze citate già prevede, la pressione militare e l’uso spregiudicato del potere istituzionale predispone le popolazioni locali, specie quelle geograficamente e socialmente lontane dai vantaggi della condivisione del potere, a guardare alle rivolte (purtroppo anche quelle che utilizzano il terrorismo) come un’opportunità di riscatto per il gruppo (sociale, politico, religioso, etnico) di appartenenza. La conseguenza è la destrutturazione della presunta identità e integrità nazionale, quella destabilizzazione che si attribuisce agli antagonisti piuttosto che ai metodi per combatterli. E l’assunto è ogni volta lo stesso. Se le popolazioni si mostrano acquiescenti verso i gruppi insurrezionali, basta lasciare intendere alle opinioni pubbliche che il loro è un problema di sottocultura e che, dopo tutto, possono anche subire qualche danno collaterale, da parte terrorista o da parte delle “forze di liberazione”.

Mappa di Jules Duhamel (gennaio 2021)

Mali, Djenné, Grande Moschea (di George Steinmetz, 2020)

Dice Edoardo Baldaro, dell’Université Libre de Bruxelles, per ISPI: “Quello che osserviamo oggi in diverse aree del Sahel è la formazione di ordini politici ibridi che assomigliano sempre più a dei «proto-stati» jihadisti”.[6] È quanto sta succedendo nella Regione Liptako-Gourma, a cavallo dei confini tra Burkina Faso, Niger e Mali, ma anche nelle regioni centrali maliane di Mopti e Ségou,[7] dove gruppi jihādisti mantengono il controllo territoriale e giuridico-amministrativo attraverso una gestione basata sia sulla Sharī’a sia su tradizioni locali.

Sahel, area delle operazioni dei gruppi jihādisti (mappa di IISS, 2019)

Le riflessioni che precedono non hanno l’intento di delegittimare l’intervento internazionale, sia chiaro. Ma di evidenziare la sua miopia, questo sì. Se si considera ogni insurrezione solo come un problema di ordine pubblico da reprimere con le bombe (come dire, strage contro strage), se si manca di indagare sul fallimento del modello post-coloniale e non si sostiene la riforma delle sue radici, questo incontrerà sempre non solo lo scetticismo dei popoli, ma anche la loro contrarietà, peggiorando la situazione della sicurezza. E la repressione, intesa giustamente come arma contro il terrorismo, si ripercuote comunque sulla gente inerme che ne diventa la vera vittima. Si può ignorare l’inconsistenza degli Stati che si dice di voler difendere; trascurare la finzione di confini nazionali tracciati sulla base della giurisdizione territoriale degli acquartieramenti militari coloniali; ignorare la crisi permanente di élite che un “Residente Generale” reclutava sulla base di un collegamento “riservato” con potentati esogeni; agire senza una strategia di riassetto complessivo indirizzato all’emancipazione dei popoli che affianchi il contrasto al terrorismo; ma tutto questo sembra insensato e solleva dubbi sulle reali intenzioni di chi di fatto gestisce la risoluzione delle crisi internazionali.

Gli organismi e gli interventi internazionali

I Paesi dell’ECOWAS

Molti sono gli organismi e le organizzazioni internazionali che si impegnano a risolvere i problemi di questa regione, la quale svolge un ruolo fondamentale nelle relazioni tra Europa, Mediterraneo e Africa Subsahariana: l’UNOWAS, l’UNDP, l’ECOSOC, the Peacebuilding Commission (tutte delle Nazioni Unite), la Banca Mondiale, l’Alliance Sahel dell’Unione Europea, il Consiglio di Pace e Sicurezza (organo esecutivo dell’Unione Africana), la Banca Africana di Sviluppo, l’unione politico-economica regionale dell’ECOWAS e altre organizzazioni subregionali.

Innumerevoli sono i programmi varati allo scopo, dall’United Nations Support Plan for the Sahel (UNSP) nel quadro dell’United Nations Integrated Strategy for the Sahel (UNISS),[8] fino ai programmi di aiuto militare ed economico inaugurati da varie entità statali e sopra-nazionali (USA, UE, Francia). L’ONU ha di recente rinnovato la missione di pace in Mali (MINUSMA) con quindicimila uomini.

Africa Occidentale, i Paesi del G5 Sahel (di ISS, 2020)

Il summit G5 Sahel di Pau del 13 gennaio del 2020

Molti analisti auspicano una maggiore partnership con il G5 Sahel, il quadro istituzionale di coordinamento nato nel 2014 su iniziativa francese per la cooperazione regionale in materia di sicurezza e sviluppo. Il tentativo di coinvolgimento dei cinque Paesi saheliani (Mali, Mauritania, Burkina Faso, Niger e Tchad) sembrerebbe invertire la tendenza (e la necessità) di trovare soluzioni al di fuori della regione. Ma l’operatività e la stessa impostazione di marca “parigina” sembrano far leva ancora una volta sul contrasto al terrorismo mediante pesanti operazioni militari non accompagnati da efficaci programmi di sviluppo e, soprattutto, dal rafforzamento istituzionale centrale e periferico dei Paesi coinvolti. Tanto è vero che le manifestazioni anti-governative e anti-francesi scoppiate a Bamako a gennaio del 2020 erano proprio una protesta diretta al vertice del G5 Sahel di Pau che si sarebbe tenuto pochi giorni dopo.[9] In pratica, è come se oggi l’intera Europa considerasse il Sahel come spazio di risulta emergente dal disfacimento del colonialismo francese e continuasse a farlo con la propria ottica di astrazione rispetto ai meccanismi sociali delle realtà locali.[10]

L’indebolimento e il mancato impegno dell’Unione Europea verso l’Africa Occidentale non favorisce un chiarimento in questo senso. La moribonda Convenzione di Cotonou (CPA) del 2000, che impegna più di 100 Paesi di Unione Europea, Africa, Caraibi e Pacifico nel raggiungimento del principale obiettivo di “ridurre e infine eliminare la povertà”, è “in proroga” dopo la sua cessazione prevista a febbraio del 2020. L’accordo raggiunto a dicembre 2020 è solo un’intesa di natura politica, in attesa della formalizzazione di un nuovo dispositivo giuridico prima del 30 novembre 2021 che regoli i trattati conseguenti. La mancanza di consonanza con l’ONU in merito agli Economic Partnership Agreements (EPAs) per creare una comune area di libero scambio tra Paesi UE e CPA, l’avvio dell’Area Continentale Africana di Libero Commercio (AfCFTA) a gennaio 2021 e l’eccessiva pretesa di imporre requisiti politici e civili in uso a Bruxelles si sono aggiunte alle difficoltà burocratiche in corso di trattativa.[11] Il che fa riflettere sulla capacità delle cancellerie europee di considerare seriamente la situazione in Africa Occidentale e Sahel. Tranne naturalmente l’Eliseo, che ha ben presente il contesto e sul campo applica un bonapartismo sempre in auge a Parigi.

La Francia, ex potenza coloniale su gran parte dell’area, conduce operazioni anti-terrorismo congiunte con i Paesi del G5 Sahel, contribuendo con oltre 5 mila uomini all’Operazione Barkhane.[12] Il 3 giugno 2020 nella regione nord-orientale maliana di Kidal forze speciali francesi hanno assassinato l’algerino Abdelmalek Droukdel, Emir dell’organizzazione salafita al-Qāʿida nella Terra del Maghreb Islamico (AQIM),[13] che è stato rimpiazzato nel ruolo dal connazionale Abū Ubaidah Yūsef al-ʿAnnābi. Dal 2020 la Francia guida anche la Takuba Task Force di iniziativa europea, operante nella Regione Liptako-Gourma e integrata nel comando dell’Operazione Barkhane. La sua azione ha come obiettivo il gruppo salafita Stato Islamico del Gran Sahara (IS-GS), fondato nel 2015 da Adnan Abū Walīd aṣ-Ṣaḥrāwi. Ma la lista delle organizzazioni islamiste militanti è troppo lunga perché Parigi possa sperare di eradicarle con la guerra, a cominciare dalle varie branche della coalizione del Gruppo d’Appoggio all’Islam e ai Musulmani del tuareg Iyad Ag Ghaly.[14]

Il presunto consolidamento democratico

Intanto, l’ONU e il G5 Sahel lanciano segnali rassicuranti. Il ghanese Mohamed Ibn Chambas, Rappresentante Speciale e Capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per l’Africa Occidentale e il Sahel (UNOWAS), riferisce al Consiglio di Sicurezza “progressi significativi” sulle agende per le donne, i giovani, la pace e la sicurezza in Africa Occidentale e Sahel.[15] E sei mesi prima, Muḥammad Ould Shaykh Muḥammad Aḥmad Ould Ġazwānī, l’autorevole Presidente della Mauritania, pur esprimendo preoccupazione, rassicurava Macron, giunto a Nouakchott per un vertice del G5 Sahel, registrando “progressi significativi” nella lotta contro il jihādismo.[16]

Liberia, il centro di Monrovia (di Erik Hersman, 2009)

Certo, le recenti elezioni in Guinea, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Ghana e Niger (tutte consultazioni presidenziali e legislative) e in Liberia (per il Senato) hanno consentito valutazioni ottimistiche sul consolidamento democratico, “nonostante le contestazioni e le violenze in Guinea e Costa d’Avorio”, come ha riconosciuto lo stesso Ibn Chambas. In questi due Paesi limitrofi i Presidenti uscenti, entrambi musulmani mandinka ma di tendenza politica opposta, sono stati eletti per la terza volta consecutiva. In Guinea, il candidato presidenziale dell’opposizione liberale aveva rivendicato la vittoria al primo turno, contestando il giudizio della Corte Costituzionale che aveva proclamato Alpha Condé per il terzo mandato. In Costa d’Avorio, Alassane Dramane Ouattara ha conseguito una controversa vittoria con oltre il 94% dei consensi. L’opposizione di ispirazione progressista, che ha boicottato le elezioni presidenziali, ha visto il suo portavoce arrestato appena una settimana dopo, indagato per cospirazione contro l’autorità dello Stato, movimento insurrezionale, assassinio e atti di terrorismo e poi rilasciato in libertà condizionata.

Burkina Faso, il centro di Ouagadougou (di Martin Wegmann, 2010)

Anche nei turbolenti Burkina Faso e Niger ha prevalso la continuità. In Burkina Faso, i cui governi hanno dovuto ricorrere spesso allo stato d’emergenza, il Presidente uscente Roch Marc Christian Kaboré ha vinto le elezioni al primo turno, non senza contestazioni di irregolarità nel voto, alla fine superate per senso di responsabilità delle opposizioni. Kaboré è a capo di un movimento social-democratico da lui fondato nel 2014 in dissenso rispetto ai metodi di Blaise Compaoré, che era Presidente da ben 27 anni e di cui lo stesso Kaboré aveva condiviso le posizioni politiche.[17] Nel confinante Niger, Moḥamed Bazoum, Presidente del partito Tarayya (Partito Nigerino per la Democrazia e il Socialismo) e in consonanza politica con il Presidente uscente Maḥamadou Issoufou, ha vinto le elezioni presidenziali al secondo turno, sconfiggendo Mahamane Ousmane, il primo Presidente del Niger democraticamente eletto nel 1993. Lo stesso anno quest’ultimo aveva scelto Issoufou come suo Primo Ministro per poi ridurne i poteri istituzionali. Insomma, tutta una partita tra rivali nella stessa famiglia politica. Con l’uscita di scena dalla Presidenza dopo 10 anni, Issoufou rimane in ogni caso il leader carismatico di Tarayya.

In Ghana, è stato riconfermato il Presidente uscente Nana Addo Dankwa Akufo-Addo, leader del Nuovo Partito Patriottico (NPP) di ispirazione conservatrice. Akufo-Addo è attualmente il Presidente dell’ECOWAS, carica che ha ereditato nel 2020 proprio dal Presidente del Niger Issoufou. In Togo, invece, la novità non è elettorale. Ferma in sella da 54 anni la dinastia presidenziale degli Eyadéma (prima con Gnassingbé, poi con il figlio Faure Essozimna Gnassingbé), dal 28 settembre 2020 il Togo ha per la prima volta una donna come Primo Ministro: si chiama Victoire Tomegah Dogbé. Un buon auspicio per l’emancipazione femminile in tutta l’Africa Occidentale, se non altro come atto simbolico.

Benin, Porto-Novo, Mercato Ouando (di Babylas, 2009)

Tchad, Guelta d’Archeï (di Valerian Guillot, 2018)

Tra i Paesi dell’Africa Occidentale che a breve saranno chiamati alle urne (il Tchad e il Benin per le elezioni presidenziali, il Gambia per un referendum costituzionale) desta preoccupazione proprio la situazione politica di prospettiva a N’Djamena, dove il Presidente nazionalista Idriss Déby Itno, che aveva preso il potere con un colpo di stato militare nel 1990 rovesciando il regime di Hissène Habré, correrà per un sesto mandato presidenziale dopo la riforma costituzionale non retroattiva del 2018 che gli consentirebbe altri due mandati.[18] Però si potrebbe considerare l’ineffabile “Maresciallo” un campione dei diritti umani, visto che che l’anno scorso ha abolito la pena di morte. E poi, dopo tutto, è una colonna portante per le operazioni anti-terrorismo del G5 Sahel!

Le interferenze francesi e il peggioramento della sicurezza

La verità è che, nonostante la retorica dei processi democratici, Parigi ha perso credibilità presso i Paesi dell’Africa francofona e soprattutto presso le comunità locali ignorate e senza nessuna interlocuzione reale (Olojo et al., 2020). Tanto più che lo sforzo bellico anti-insurrezionale si è dimostrato inefficace a riprendere il controllo governativo dei territori, ammesso che lo abbiano avuto in passato. Per contro, miliziani armati di tutti i generi e forze armate straniere sotto l’egida di programmi militari integrati occupano le loro terre.[19]

Mali, dimostrazioni contro Ibraḥim Boubacar Keïta (Fonte: CarrefourIvoire, 2020)

L’evidenza della perdita di fiducia da parte dei cittadini è data dalle proteste anti-governative in diversi Paesi francofoni per la conduzione delle elezioni e, più generalmente, per la dilagante corruzione. Per di più, proteste anti-francesi sono scoppiate specialmente in Mali prima del colpo di stato di agosto scorso e susseguenti all’intervento militare del 2013. Parigi non si era fatta scrupolo ad appoggiare il colpo di stato militare del 2012 contro il Presidente Amadou Toumani Touré regolarmente eletto già dal 2002; e nel prosieguo non aveva esitato a difendere il conseguente regime “pseudo-democratico” di Ibraḥim Boubacar Keïta insediato a Bamako.[20] Che da allora la situazione sia peggiorata in tutto il Sahel non è un mistero e il colpo di stato di agosto ne è una prova. La recente estromissione incruenta di Keïta, naturalmente condannata dalla cosiddetta comunità internazionale e seguita da sanzioni, non è certo un esercizio di democrazia, ma sarà servita ad invertire la rotta? Oggi il Colonnello Bah N’Daw presiede un governo provvisorio per un periodo di 18 mesi e il suo Primo Ministro, il diplomatico Moctar Ouane, è un civile.

Mali, danza di pastori peul (di Fasokan, 2014)

Mali, Paese Dogon, Songho (foto dell’autore)

Mali, Paese Dogon, villaggio (di andysworldjourneys, 2015)

Ecco. L’origine del problema attuale è proprio l’interferenza francese del 2013 in Mali con l’operazione Serval (Gattopardo) contro i nazionalisti e gli islamisti che avevano dichiarato l’indipendenza dell’Azawād. Purtroppo gli effetti di quell’imprevidente operazione stanno tuttora interessando non solo il Mali, ma anche Burkina Faso e Niger; e tutti i relativi governi, assecondando il volere di Parigi, avevano adottato approcci prioritariamente militari contro intere popolazioni, diventate target di brutali repressioni statali o di gruppi etnici armati (Baldaro, 2021). In Mali ne hanno approfittato diversi movimenti islamisti per accreditarsi come difensori di quelle popolazioni. Per esempio, ʾAnṣār ad-Dīn lo ha fatto nei confronti dei Tuareg della regione di Kidal e la sua costola Katibat Macina per i Peul della regione di Mopti, dove anzi, facendo le veci delle autorità statali, il gruppo svolge compiti di pacificazione nei conflitti tra i Peul e i Dogon di Bandiagara e Sangha.

Ogni governo ha un proprio approccio per migliorare la sicurezza nell’area. Le politiche con cui Mali e Burkina Faso da un lato e Niger dall’altro applicano il controllo della sicurezza sul territorio differiscono per modalità rispetto all’uso della forza: decentrato e affidato ad organizzazioni per l’auto-difesa delle comunità locali, nel primo caso; accentrato nelle mani dello stato e monopolistico, nel secondo (Moderan, 2021).

Mali, Azawād, Tinbuktu (di Francesco Bandarin, 2005)

C’è chi oggi invoca la piena applicazione dell’Accordo per la Pace e la Riconciliazione in Mali di maggio-giugno 2015, che, tra i principi espressi all’art. 1, prevede the “una gestione efficace da parte della popolazione dei propri affari, in un sistema di governo che tenga conto delle sue aspirazioni e delle sue esigenze specifiche”.[21] I gruppi armati firmatari rappresentano le varie anime dell’auto-determinazione dell’Azawād (le nazionaliste tuareg e araba e l’islamista).[22] Ma proprio la natura dell’Accordo ha creato discriminazioni tra quei gruppi armati che sono stati ammessi al processo di pace e quelli che ne sono stati respinti secondo giudizi arbitrari di valutazione sul loro ruolo.

L’alternativa alle azioni belliche anti-terrorismo

Alcuni Paesi esterni, come il Marocco e l’Algeria, attaccati da forze terroristiche, puntano su metodologie che, se attuate da subito, potrebbero rappresentare una mitigazione alle conseguenze della violenza e, nel tempo, una diversa opzione rispetto alle azioni belliche. Da una parte, propongono la valorizzazione dei movimenti religiosi tradizionalmente più aperti all’incontro con il patrimonio sacro locale che non ad influenze radicali esterne; dall’altra, il compromesso politico e la cooperazione in ambito internazionale.

Mauritania, Nouakchott, mercato marocchino (di Valerian Guillot, 2019)

Il Marocco di Re Moḥammed VI sottolinea il radicamento di una visione tollerante dell’Islam, chiamando leader religiosi e istituzioni dei Paesi dell’Africa Occidentale e del Sahel a sostenere congiuntamente concezioni e programmi in questo senso.[23] L’Algeria, in forza della sua Costituzione e nonostante schieri uno dei più potenti eserciti dell’Africa, è sempre stata contraria ad interventi militari sul suolo di stati sovrani. Dopo aver condiviso il territorio metropolitano francese fino al 1962, ha avuto un atteggiamento diplomatico sfavorevole alle azioni anti-terrorismo condotte anche dalla Francia, per il timore di destabilizzazione della sua vasta area sahariana. Anzi, ha sempre cercato e favorito il dialogo e la cooperazione. Si ricorda il suo impegno nel Processo di Algeri che ha aperto le porte all’accordo per il Mali e nel Processo di Nouakchott per il potenziamento della cooperazione regionale in materia di sicurezza, sotto l’egida dell’Unione Africana (D’Agostino, 2017). L’attuale Presidente ‘Abd al-Majīd Tabuʾn, annunciando possibili modifiche costituzionali, sembra invertire l’atteggiamento isolazionista in materia di interventi militari all’estero, ma non quello del protagonismo nella mediazione politica regionale con tutti gli attori, statali e non-statali (Dworkin, 2020).

Tra le considerazioni iniziali si citava l’importanza delle situazioni economico-sociali sulla stabilità politico-istituzionale, traendone le conseguenze. Non si ha la pretesa di affrontare qui la situazione economico-sociale dei Paesi del Sahel e dell’Africa Occidentale. Solo presentare un estratto del quadro aggiornato del Reddito Nazionale Lordo (GNI) pro capite per ciascuno di quei Paesi della suddetta area riconosciuti dall’ONU come Paesi meno sviluppati (LDCs).[24]

Paese Popolazione GNI pro capite
Niger 24.207.000 $ 393
Liberia 5.000.000 $ 431
Gambia 2.417.000 $ 449
Togo 8.280.000 $ 555
Sierra Leone 7.977.000 $ 582
Guinea-Bissau 1.968.000 $ 595
Burkina Faso 21.510.000 $ 643
Guinea 13.133.000 $ 678
Mali 20.251.000 $ 801
Benin 11.884.000 $ 882
Tchad 16.245.000 $ 921
Senegal 16.744.000 $ 1.004
Mauritania 4.650.000 $ 1.230

In questo contesto spicca la condizione insostenibile del Niger, quinto produttore di uranio al mondo,[25] il cui GNI pro capite è comunque meno della metà del Mali e meno di un terzo della Mauritania. La situazione è aggravata dal più alto tasso di fertilità al mondo (7 figli per donna) su un territorio dove la contrazione della superficie arabile non consente di produrre abbastanza cibo per il sostentamento della popolazione. Il governo a Niamey è dunque forzatamente dipendente in termini economici e politici da Parigi perché è il suo maggiore acquirente di uranio da utilizzare per le centrali nucleari. E questo ne fa un Paese a sovranità limitata anche sul piano geo-strategico e di sicurezza interna. Ma certamente non è il solo, visto che altri Paesi dell’area non versano certo in condizioni tali da poter affermare quella reale indipendenza che le loro Costituzioni post-coloniali garantiscono.

Alla fine, la guerra all’estremismo e al terrorismo fornisce all’Occidente civilizzato dei diritti umani l’alibi per mantenere una dipendenza più che secolare e alle milizie armate legali e non legali quello per sostituirsi ai governi impotenti e spesso conniventi. E questo suggerisce che i metodi brutali adottati in Africa a seguito del Congresso Internazionale di Berlino del 1878 hanno ceduto il passo ad una strategia più raffinata basata sull’ipocrisia di ideologie puramente irreali e di parole d’ordine ingannevoli.

Una via per sottrarsi a queste influenze esterne, per lo meno sul piano economico, è fornita dai tentativi di cooperazione regionale guidata dai partner più strutturati e basata sull’integrazione delle economie. Ancora una volta, il Marocco e l’Algeria sono all’avanguardia del processo. Atteggiamento non disinteressato, si intende. Ma questo sottolinea l’importanza geo-politica dell’area. Le due “potenze” nord-africane sono strategicamente rivali e si confrontano sul terreno dell’influenza esercitata sul Sahara Occidentale, rendendo il territorio instabile: Rabat, fedele alla teoria del “Grande Marocco” adottata nel 1957 e a seguito della pacifica Marcia Verde del 1975 e della formale annessione del 1979, la considera una sua provincia; per contro, Algeri supporta il movimento politico armato Fronte Polisario nella rivendicazione d’indipendenza dell’auto-proclamata Repubblica Araba Democratica dei Ṣaḥrāwi (SADR).[26] La questione coinvolge anche l’Unione Africana, che nel 1984 aveva ammesso la SADR come suo membro, provocando la fuoruscita del Marocco dall’Unione. Quattro anni fa Rabat vi è rientrato sulla base di un artificioso compromesso.

La cooperazione è dunque l’asset che serve a Rabat per rientrare sulla scena africana, apportando stabilità al Sahel anche con i suoi programmi di sviluppo sociale, ma non solo. Il Paese maghrebino è promotore del gasdotto offshore dell’Atlantico Africano, un progetto gigantesco finanziato attraverso fondi sovrani e organismi internazionali. Porterà il gas nigeriano in Marocco attraverso quindici Paesi dell’intera costa dell’Africa occidentale (Bassou, 2017). Sul piano infrastrutturale, l’Algeria risponde con la riproposizione dell’arteria di comunicazione stradale Transahariana, che dovrà congiungere i 4.500 chilometri che separano Algeri da Lagos e che prevede ramificazioni per raggiungere Tunisi, Bamako e N’Djamena.[27] Come dire, un’apertura per il commercio, ma anche un ponte di dialogo politico e di influenza strategica.

Il Marocco riveste il ruolo di maggiore investitore africano in Africa Occidentale e uno dei maggiori di tutta l’Africa. Tuttavia, le importazioni della regione sono ancora sbilanciate a vantaggio dei Paesi extra-continentali, rendendo ancora bassa la quota detenuta dal Marocco. Questo significa che maggiori investimenti in loco possono aumentare la sua quota di mercato. I Paesi dell’ECOWAS, l’unione politico-economica regionale, ritengono aggressiva questa politica di espansione che Rabat potrebbe attuare, per le conseguenze che apporterebbe al sistema produttivo locale. Soprattutto la Nigeria teme che la sua supremazia possa essere indebolita da un maggior peso dei Paesi francofoni, nonostante l’accordo con il Marocco per il gasdotto citato. Ed è il motivo per cui la domanda di ammissione alla Comunità presentata quattro anni fa non ha ancora avuto una risposta da parte dei membri. Ma l’avvio dell’Area Continentale Africana di Libero Commercio (AfCFTA) proprio nel 2021 potrebbe superare le barriere opposte dall’ECOWAS (Dworkin, 2020).

Conclusione

Gli interventi militari internazionali anti-terrorismo hanno aggravato l’insicurezza dell’Africa Occidentale e del Sahel e hanno dimostrato i limiti della loro visione miope cui sono ispirati. E l’inefficacia è avvalorata dalla loro proliferazione e sovrapposizione, che svela la pluralità di interessi che si muove attorno. Al di là delle buone intenzioni avallate dalla legittimità offerta dagli organismi internazionali preposti, una certa tendenza “colonizzatrice” ancora presente nelle operazioni condotte sul campo lascia intendere secondi fini di controllo politico-economico, se non sociale, di interi Paesi e comunità. Tendenze che mal si conciliano con democrazia, diritti umani e giustizia sociale, tutti principi che dicono di veicolare. Senz’altro valori da difendere, ma privati dalle attuali ipocrisie di ideologie puramente irreali che mal si adattano al contesto. L’obiettivo di eradicare e in prospettiva eliminare la povertà ha poco a che fare con la limitazione della sovranità nazionale, anche questa avallata selettivamente dalla “comunità internazionale”.

Eppure, l’ottimismo che scaturisce dalla retorica dell’avanzamento dei processi democratici non corrisponde alla realtà. La regione è gravemente ammalata e il terrorismo (o quello che impropriamente ed enfaticamente viene chiamato jihādismo) è uno dei tanti mali, deleterio per le popolazioni tanto quanto quei vizi di origine che determinano il suo ritardo di sviluppo economico e sociale. Se veramente si vuole ridurre il livello dei conflitti (che sono prevalentemente locali, etnici, confinari e autonomisti, specialmente nel Sahel) bisogna affrontare gli assetti politico-istituzionali che regolano la vita degli Stati da oltre sessanta anni. Sono i metodi aggressivi di gestione del potere, incoraggiati già dal primo periodo post-coloniale, che vanno corretti non in direzione dei modelli europei, ma tenendo conto della sensibilità delle comunità locali. È da loro che arriva la protesta e la richiesta di aiuto. Le risposte devono riguardare il rafforzamento istituzionale centrale e periferico, il controllo governativo dei territori, la riforma della pubblica amministrazione, la fine della dilagante corruzione, i servizi alle comunità rurali, i diritti alla sanità e all’istruzione.

Introdurre modelli etero-diretti non è compito della comunità internazionale, che, visti i risultati, utilizzerebbe metodi bellici. Gli attori internazionali devono provare la buona fede nelle loro operazioni. Forse dovrebbero rafforzare il paradigma della cooperazione regionale anche e non solo in materia di sicurezza, lavorare per promuovere l’integrazione delle economie e rimproverare la resistenza della classe dominante ai cambiamenti al vertice del sistema di potere. E qui bisogna purtroppo chiamare in causa la responsabilità delle élite locali, spesso a lungo conniventi con interessi extra-territoriali, ma anche gli ex poteri coloniali, che le hanno scelte e reclutate al loro servizio, le hanno dotate di credenziali di legittimità democratica e ne hanno tollerato i metodi clientelari adottati. Naturalmente, tutto va bene finché il potere di controllo straniero decide di sovvertire gli equilibri creati artificialmente. A quel punto, la “riservatezza” della distante ragion di stato securitaria consiglia di intervenire militarmente per stabilizzare il Paese.

Destabilizzare per stabilizzare, dunque, è il gioco ambiguo ancora in auge!

 

RIFERIMENTI

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***

[1] Institute for Economics & Peace (Novembre 2020). Global Terrorism Index 2020: Measuring the Impact of Terrorism. Vedi https://www.visionofhumanity.org/wp-content/uploads/2020/11/GTI-2020-web-1.pdf.

[2] International Chamber of Commerce (13 gennaio 2021). Gulf of Guinea records highest ever number of crew kidnapped in 2020, according to IMB’s annual piracy report. Vedi https://iccwbo.org/media-wall/news-speeches/gulf-of-guinea-records-highest-ever-number-of-crew-kidnapped-in-2020-according-to-imbs-annual-piracy-report/#:~:text=The%20International%20Chamber%20of%20Commerce’s,comparison%20to%20162%20in%202019.

[3] International Chamber of Commerce’s Commercial Crime Services (13 gennaio 2021). Gulf of Guinea records highest ever number of crew kidnapped in 2020, according to IMB’s annual piracy report. Vedi https://www.icc-ccs.org/index.php/1301-gulf-of-guinea-records-highest-ever-number-of-crew-kidnapped-in-2020-according-to-imb-s-annual-piracy-report.

[4] Abdelhak Bassou (Maggio 2017). Africa’s natural resources and geopolitical realities. Policy Brief. Rabat, Morocco: OCP Policy Center.

[5] Trouble in the heart of Mali (n.d.). Vedi https://www.un.org/africarenewal/news/trouble-heart-mali.

[6] Edoardo Baldaro (03 marzo 2021). Violence, Dysfunctional States, and the Rise of Jihadi Governance in the Sahel. ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). Vedi https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/violence-dysfunctional-states-and-rise-jihadi-governance-sahel-29301.

[7] Ornella Moderan (03 marzo 2021). Proliferation of Armed Non-State Actors in the Sahel: Evidence of State Failure?. ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). Vedi https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/proliferation-armed-non-state-actors-sahel-evidence-state-failure-29329.

[8] United Nations (s.d.). UNISS United Nations Integrated Strategy for the Sahel. Vedi https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/UN_UNISS_Report_En.pdf.

[9] Akinola Olojo, Baba Dakono and Ibrahim Maïga (10 febbraio 2020). Insecurity in the Sahel won’t be solved at high-level summits. Vedi https://reliefweb.int/report/burkina-faso/insecurity-sahel-won-t-be-solved-high-level-summits.

[10] Irene Fernández-Molina, Laura Feliu & Miguel Hernando de Larramendi (2019). The ‘subaltern’ foreign policies of North African countries: old and new responses to economic dependence, regional insecurity and domestic political change. The Journal of North African Studies, 24(3), 356-375, doi: 10.1080/13629387.2018.1454648.

[11] European Parliament (Gennaio 2021). After Cotonou: Towards a new agreement with the African, Caribbean and Pacific states. Vedi https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2021/659453/EPRS_BRI(2021)659453_EN.pdf.

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[17] Leonardo Alfonso Villalón (03 marzo 2021). Political Regimes and Electoral Processes: The State of Democracy in the Sahel. ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). Vedi https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/political-regimes-and-electoral-processes-state-democracy-sahel-29309.

[18] Chad parliament approves new constitution, president Deby can rule till 2033 (30/04/2018). Vedi https://www.africanews.com/2018/04/30/chad-parliament-approves-new-constitution-president-deby-could-rule-till-2033/

[19] Robert Malley (30 dicembre 2020). 10 Conflicts to Watch in 2021. Vedi https://www.crisisgroup.org/global/10-conflicts-watch-2021.

[20] Glauco D’Agostino (2017). Sahel: Legitimacy of Unconditional Force or Global Cooperation for Development? Geopolitica. Revistă de Geografie Politică, Geopolitică şi Geostrategie, XV(72) Africa Fluidă. Bucureşti: Editura Top Form, Asociaţia de Geopolitica Ion Conea.

[21] Agreement for Peace and Reconciliation in Mali Resulting from the Algiers Process (Translation by University of Edinburgh) (s.d.). Vedi https://www.un.org/en/pdfs/EN-ML_150620_Accord-pour-la-paix-et-la-reconciliation-au-Mali_Issu-du-Processus-d’Alger.pdf.

[22] I firmatari dell’Accordo sono il Coordinamento dei Movimenti dell’Azawād (CMA) e la Piattaforma della coalizione dei gruppi armati. Entrambe le coalizioni sono state create da fazioni scissioniste del Movimento Arabo dell’Azawād (MAA), ognuna delle quali mantiene tuttora la propria formazione all’interno della rispettiva coalizione. Al CMA partecipano anche il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawād (MNLA), l’Alto Consiglio per l’Unità dell’l’Azawād (HCUA) e fazioni della Coalizione del Popolo per l’Azawād (CPA) e del Coordinamento dei Movimenti e Fronte Patriottico di Resistenza (CM-FPR). La Piattaforma raccoglie le fazioni scissioniste di MAA, CPA e CM-FPR e il Movimento per la Salvezza dell’Azawād (MSA). Vedi United Nations Security Council (21 febbraio 2018), Report of the Secretary-General on children and armed conflict in Mali, https://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-8CD3-CF6E4FF96FF9%7D/s_2018_136.pdf.

[23] Anthony Dworkin (3 luglio 2020). A return to Africa: Why North African states are looking south. European Council on Foreign Relations. Vedi https://ecfr.eu/publication/a_return_to_africa_why_north_african_states_are_looking_south/

[24] One World – Nations Online (2020). The Least Developed Countries (LDCs). Vedi https://www.nationsonline.org/oneworld/least_developed_countries.htm.

[25] Georgia Williams (19 agosto 2020). Largest Uranium-producing Countries. Vedi https://investingnews.com/largest-uranium-producing-countries/

[26] Glauco D’Agostino (Ottobre 2013). La lunga marcia dell’Islam politico. Contropotere, rinnovamento religioso e dinamismo militante. Roma, Italia: Gangemi.

[27] Saïd Aït-Hatrit (21 giugno 2020). Transsaharienne : l’Algérie ouvre la voie. Vedi https://www.jeuneafrique.com/mag/989060/economie/transsaharienne-lalgerie-ouvre-la-voie/

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